Stringeva le buste della spesa tra le mani, Mario Volpicelli, quando i sicari a bordo di una moto lo hanno affiancato sulla via che lo riconduceva a casa, al termine dell’ennesima giornata di lavoro, per giustiziarlo come un boss, seppure un boss non lo era affatto.
La sua unica colpa era quella di aver sposato la sorella dei fratelli Sarno, gli ex boss di Ponticelli, poi diventati collaboratori di giustizia e di essere lo zio di un killer del clan De Micco.
Mario Volpicelli, 53 anni, marito, padre, nonno, lavoratore onesto, estraneo alle dinamiche camorristiche, è morto in un agguato di matrice camorristica la sera del 30 gennaio del 2016, gettato in pasto alle funeste logiche della camorra da quei vincoli di parentela.
In quel momento storico, a Ponticelli, quartiere della periferia orientale di Napoli che per circa trent’anni ha visto i fratelli Sarno dominare la scena camorristica da leader, le vecchie famiglie d’onore intenzionate a vendicarsi delle conseguenze scaturite proprio dalle dichiarazioni rese alla magistratura dagli ex boss del rione De Gasperi, unirono le forze. Dopo anni trascorsi in sordina, costretti a subire l’egemonia degli altri clan, depauperati della potenza economica e militare necessaria per sostenere una guerra, strinsero un’alleanza il cui principio ispiratore va ricercato proprio nel desiderio di vendetta.
Minichini, De Luca Bossa, Schisa, Aprea: tutti cognomi riconducibili a clan che annoverano almeno un elemento di spicco condannato all’ergastolo dalle dichiarazioni rese dai fratelli Sarno in veste di collaboratori di giustizia.
Nella fattispecie, il fine pena mai più pesante è quello incassato dagli affiliati all’ormai ex clan Sarno che parteciparono alla strage del Bar Sayonara, un’azione militare voluta dal boss Ciro Sarno per eliminare i rivali del clan Andreotti e che portò alla morte di sei persone, quattro delle quali estranee alle dinamiche camorristiche. Una strage di innocenti, una delle pagine di cronaca più tristi della storia napoletana.
L’ergastolo fu confermato in via definitiva per tutti i partecipanti, a vario titolo, alla strage. Anche per gli affiliati che ricoprirono un ruolo marginale perchè, secondo la magistratura, chiunque era a conoscenza del piano ordito dal boss Ciro Sarno e che prevedeva l’irruzione in un bar di killer travestiti da metalmeccanici, avrebbe potuto evitare quella mattanza.
Una condanna voluta per punire in maniera esemplare un’efferata e scellerata azione camorristica che portò alla morte di quattro persone innocenti e che i parenti degli ergastolani decisero di punire decretando la morte di un innocente: Mario Volpicelli.
Il capro espiatorio perfetto, la vittima sacrificale selezionata con scrupolo per sedare il livore di vendetta, malgrado Mario Volpicelli fosse estraneo alle dinamiche camorristiche.
Mario Volpicelli era la mosca bianca della famiglia Sarno, il cognato dei boss di Ponticelli che si era sempre tenuto alla larga dagli affari illeciti. Dopo un trascorso da operaio in una fabbrica di gelati, lavorava come commesso in un negozio “tutto 50 centesimi” in via Bartolo Longo, a due passi dal Rione De Gasperi di Ponticelli, l’ex fortino del clan fondato dai cognati.
Raggiungeva a piedi quel negozio nel quale tutti i giorni si spaccava la schiena, sistemando detersivi e bagnoschiuma sugli scaffali, ma Mario non era mai troppo stanco o indaffarato da non dispensare un sorriso o una parola gentile. Ai clienti sprovvisti di qualche spicciolo per saldare il conto allungava un paio di monete o li lasciava andare via, concedendogli un benevolo atto di cortesia, seppure quel negozio non fosse suo, contrariamente a quanto insinuato dai maldicenti.
Rincasava a piedi, Mario. Tutte le sere, percorrendo sempre la stessa strada.
Non fu difficile per sicari pianificare l’agguato. Tant’è vero che, quella sera, quel piovigginoso sabato sera, il 30 gennaio del 2016, Mario Volpicelli fu assassinato in via Curzio Malaparte, la strada che conduce nel Rione De Gasperi da via Bartolo Longo.
Malgrado la pioggia, i killer entrarono in azione quella sera, perchè Mario doveva essere ucciso proprio quella sera.
Quel delitto era stato pianificato e concepito per indirizzare un messaggio inequivocabile agli ex boss di Ponticelli e non solo a loro.
La sera del 29 gennaio del 2013, Salvatore De Micco e Gennaro Volpicelli, assassinarono l’affiliato ai D’Amico Gennaro Castaldi – reale obiettivo dell’agguato – e Antonio Minichini, il 19enne figlio del boss Ciro Minichini e di Anna De Luca Bossa, sorella del boss Tonino ‘o sicco. In sostanza, Minichini fu ucciso solo perchè si trovava in compagnia dell’amico Castaldi, quando i sicari entrarono in azione per ucciderlo. Un omicidio che sancì l’inizio di una sanguinaria faida di camorra tra i De Micco e i D’Amico per il controllo del territorio, in particolare, del business della droga.
Mario Volpicelli, lo zio di Gennaro Volpicelli, fu assassinato all’indomani dell’anniversario della morte di Antonio Minichini e alla vigilia del giorno in cui si celebra San Ciro. Un omicidio voluto per vendicare la morte del giovane Minichini, ma anche per fare un “regalo di onomastico” a Ciro Minichini – padre di Antonio – e al boss Ciro Sarno, cognato di Volpicelli, a lui particolarmente legato.
Una morte sulla quale potrebbe aver già concorso a far luce il collaboratore di giustizia Tommaso Schisa, figlio di Roberto Schisa, uno degli ex affiliati ai Sarno condannati all’ergastolo per la strage del Sayonara e di Luisa De Stefano, “la pazzignana” stimata essere tra le ideatrici della cosiddetta “strage dei parenti dei pentiti dei Sarno”.
Oltre al danno, sopraggiunge la beffa: complice un precedente penale per droga maturato in una circostanza a dir poco equivoca, Mario Volpicelli non potrà mai essere dichiarato vittima innocente della criminalità, seppure sia stato condannato a morte da logiche non riconducibili alla sua condotta e distanti anni luce dal suo status di uomo umile ed onesto.
Quello che resta, oggi, di Mario Volpicelli è il ricordo commosso degli abitanti del quartiere che lo hanno conosciuto e ne hanno testato la semplice umanità, unitamente al legittimo desiderio di verità e giustizia.