La nascita del clan De Luca Bossa di Ponticelli è associata ad un evento ben preciso: il primo attentato stragista con autobomba in Campania. Era il 25 aprile 1998 ed Antonio De Luca Bossa, soprannominato Tonino ‘o sicco, dopo una lunga carriera in veste di killer del clan Sarno, opta per la scissione e brama di annunciare la sua decisione in grande stile, mettendo la firma su un agguato eclatante.
L’autobomba piazzata nella ruota di scorta dell’auto guidata da Luigi Amitrano, autista e nipote del boss Vincenzo Sarno, doveva esplodere quando Amitrano avrebbe accompagnato lo zio al commissariato a firmare, come ogni domenica. Invece, il manto stradale dissestato, manda in frantumi l’automobile la sera prima, uccidendo solo il giovane nipote dei Sarno, di ritorno da una giornata trascorsa al capezzale di sua figlia di quattro anni, ricoverata in ospedale.
Non solo per questo Tonino ‘o sicco viene annoverato tra i camorristi più spietati.
Malgrado sia stato condannato all’ergastolo in tenera età e sia tuttora detenuto al 41 bis, i suoi eredi lo hanno erto a modello da seguire. Tra i palazzoni del Lotto o, il fortino del suo clan, viene ancora apostrofato come un idolo, un leone, un vero uomo, un mito, una leggenda.
Il suo primo emulatore è il fratellastro Christian Marfella, figlio del boss di Pianura Giuseppe Marfella e della madre di Tonino ‘o sicco, Teresa De Luca Bossa. A differenza degli altri figli di Marfella, radicati a Pianura, Christian decide di seguire le orme di quel fratellastro che ha solo intravisto e che ha principalmente conosciuto durante i colloqui in carcere. Una volontà che annuncia tatuando sul collo il soprannome di quel fratellastro che mira ad onorare, rilanciando le quotazioni del clan De Luca Bossa, schierandosi in prima linea nella trincea della malavita ponticellese.
Christian Marfella debutta sulla scena camorristica di Napoli est poco più che adolescente, contestualmente al declino dell’era dei Sarno, scaturito dal pentimento delle figure apicali del clan che per circa un trentennio ha tenuto sotto scacco mezza Napoli e provincia. Un’uscita di scena che ha generato un profondo vuoto di potere che i reduci del clan De Luca Bossa mirano a colmare imponendo la loro supremazia. Ci crede, Christian. Ci crede fortemente. Malgrado sia poco più che un ragazzino, dimostra il cinismo e la freddezza del camorrista temprato, mettendo la firma su una serie di azioni che gli fanno guadagnare ben presto una fama temibile. Frutto dell’unione tra due elementi di primo ordine della camorra napoletana, Christian è un predestinato. Tant’è vero che quella molecola specifica che marca il suo Dna la tatua sulla nuca.
In casa De Luca Bossa, la camorra è il principio che guida ed ispira le gesta di tre generazioni. La prima, capeggiata da Umberto De Luca Bossa, un temprato cutoliano. Dall’unione con la prima donna detenuta al 41 bis della storia italiana, “Donna Teresa”, nasce per l’appunto Antonio, uno dei killer più spietati della storia italiana che prima di finire in carcere ha messo al mondo quattro figli, due maschi e due femmine.
Il suo primogenito, Umberto, che porta per l’appunto il nome del nonno, rilancerà l’attaccamento ai valori paterni tatuando il nome di quel genitore che gli ha consegnato una pesantissima eredità in più parti del corpo. Il più vistoso, quello che adorna il petto.
Al rampollo di casa De Luca Bossa, però, non basteranno i tatuaggi per consolidare la fama e la tempra del boss da temere e rispettare. Guadagnerà ben presto la fama del “camorrista che non sa sparare” per la nota repulsione ad impugnare le armi.
A riscattare le sorti della famiglia contribuirà suo cugino, il figliastro di sua zia, Anna De Luca Bossa: Michele Minichini.
Michele è il figlio di Ciro Minichini, braccio destro di Tonino ‘o sicco che rinsalda il legame con la famiglia De Luca Bossa mettendo al mondo due figli: Antonio e Martina. Proprio la morte violenta di Antonio, giustiziato dai killer del clan De Micco, poterà il fratellastro Michele a bramare vendetta. Un desiderio che Michele Minichini scalfisce sul petto, unitamente al volto del fratellastro assassinato all’età di 19 anni.
“Arriverà il giorno della vendetta”, recita la frase in spagnolo scalfita sul petto di Michele Minichini che in attesa di portare a compimento la vendetta contro gli acerrimi nemici del clan De Micco, metterà la firma su una serie di efferate azioni criminali.
La morte di Antonio Minichini, in effetti, sancisce il punto di non ritorno per i Minichini-De Luca Bossa, un’unica famiglia/clan, animata dal desiderio di mettere all’angolo i De Micco, non solo per portare a compimento il sogno covato da Tonino ‘o sicco quando si dissociò dal clan Sarno, ma anche per vendicare quella morte che ha solcato una ferita indelebile nei loro cuori.
Il 19enne Antonio Minichini fu ucciso nell’ambito della prima faida in corso per il controllo del territorio. Seppure nelle sue vene scorresse il sangue di due famiglie camorristiche di primo ordine, Minichini fu ucciso solo perchè si trovava in compagnia dell’amico Gennaro Castaldi, unico obiettivo dei sicari del clan De Micco.
Una morte che ha sancito il punto di non ritorno e che ha proiettato le ostilità tra le due fazioni ben oltre le logiche dettate dagli interessi economici. Negli anni in cui i De Micco riuscirono a conquistare il controllo dei traffici illeciti a Ponticelli erano una forza dirompente. Troppo organizzati e ben equipaggiati, disponevano di una massiccia quantità di uomini ed armi ed erano in grado di fronteggiare qualsiasi nemico. Ne era consapevole Michele Minichini e per questo ha cercato l’appoggio di altri clan per centrare l’agognata vendetta. Dapprima quello della “Pazzignana” Luisa De Stefano che lo ha accolto ed indottrinato come solo un’austera mamma-camorra poteva fare, guardandosi bene dal pestare i piedi ai De Micco, in attesa del momento più propizio per agire. Poi, forte del supporto di “‘o canotto”, alias Bruno Mascitelli, un boss da sempre desideroso di mettere le mani sul business della droga che dilaga a Ponticelli, Minichini orchestra l’agguato al quale, nel novembre del 2016, sono miracolosamente sopravvissuti Luigi De Micco – reggente dell’omonimo clan in seguito all’arresto dei fratelli Marco e Salvatore – e di Antonio Autore, figura di spicco del clan De Micco.
Di fatto, Michele Minichini, arrestato nel 2018 e condannato all’ergastolo è finito in carcere senza riuscire a vendicare la morte del fratello.
Un desiderio di vendetta fomentato, di recente, dall’omicidio eccellente di un altro giovane erede del clan De Luca Bossa: Carmine D’Onofrio, il figlio naturale di Giuseppe De Luca Bossa, fratello di Tonino ‘o sicco. Anche sull’assassinio del 23enne figlio di Peppino De Luca Bossa c’è la firma dei De Micco.
Una storia assai singolare, quella di Carmine. Cresciuto ignaro dell’identità del suo vero padre e che una volta scoperto il legame di sangue che lo univa ad una delle famiglie camorristiche più temprate del quartiere in cui è nato e cresciuto, è andato incontro ad un cambiamento radicale. Il sogno di fare l’attore ha ceduto il posto al desiderio di onorare il richiamo del sangue e così è diventato il factotum di suo cugino Emmanuel, secondogenito di Tonino ‘o sicco, impossibilitato a compiere commissioni ed “imbasciate” in quanto detenuto ai domiciliari.
Anche Carmine D’Onofrio suggella il legame con la famiglia paterna con un tatuaggio che riproduce le iniziali del cognome sul petto: D.L.B., una sigla che verrà incisa anche sulla sua lapide. Verosimilmente, il 23enne paga con la vita pochissimi mesi di affiliazione e la sua condanna a morte fu decretata perchè indicato come il responsabile di un raid indirizzato ai De Micco. Una bomba esplosa nel cortile dell’abitazione del boss Marco De Micco. Un affronto al quale un boss spietato come lui poteva replicare solo in in un modo.
L’omicidio di Carmine D’Onofrio allunga la scia di sangue da vendicare, tant’è vero che il giovane verrà seppellito al cimitero di San Giovanni a Teduccio, proprio accanto ad Antonio Minichini.
Dopo aver subito in silenzio la furia egemone dei rivali del clan De Micco, i De Luca Bossa sono tornati a riporre speranze ed aspettative nel primo emulatore di Tonino ‘o sicco: Christian Marfella. Scarcerato da poco più di un mese, dopo circa 10 anni di detenzione, malgrado sia costretto ai domiciliari fino a settembre e monitorato a distanza con il braccialetto elettronico, il ritorno a Ponticelli di Marfella ha immediatamente rianimato le reclute del clan De Luca Bossa e ha riacceso la mai sedata faida contro i De Micco, i rivali di sempre. Le intenzioni degli eredi di Tonino ‘o sicco appaiono chiare: mettere all’angolo gli acerrimi rivali per vedere la bandiera dei De Luca Bossa sventolare su Ponticelli. Sullo sfondo quell’alacre desiderio di vendetta, incattivito dagli episodi recenti.