E’ possibile asserire che le donne soldato esistono da sempre, se vogliamo andare a ritroso nel tempo da Giovanna d’Arco a Wang Cong’er, fino alle partigiane antifasciste, la storia è costellata di combattenti valorose, nei limiti delle possibilità femminili nella società. Eppure le soldatesse curde che combattono contro lo Stato Islamico nel Kurdistan iracheno, turco e siriano, arruolandosi volontariamente nella guerra contro il terrore dell’Isis, inevitabilmente sorprendono di più.
Sorprendono perché siamo abituati da un immaginario un po’ stereotipato, che considera le donne di quelle latitudini esclusivamente sottomesse e velate, e una politica che le equipara agli uomini ci sembra un retaggio esclusivamente occidentale.
Di certo la vita delle donne in questi paesi non è minimamente paragonabile a quella delle donne occidentali, ma focalizzando la situazione delle soldatesse curde emerge che: non solo lottano per la libertà dal fanatismo dell’Isis, ma anche per la loro emancipazione, dimostrando al mondo intero una forza d’animo senza eguali.
Le combattenti curde siriane fanno capo all’YPJ (Unità di Protezione delle donne, declinazione femminile dell’YPG, Unità di Protezione del popolo) e sono circa il 35% dei combattenti delle varie brigate. Kalashnikov e mimetica, lottano per la propria Nazione e per contrastare tutte le limitazioni imposte alle donne dallo Stato Islamico. E proprio in virtù della limitatezza del fanatismo maschilista dello Stato Islamico, si stanno riorganizzando una serie di strategie di combattimento nell’area. Pare infatti che i combattenti dell’Isis siano terrorizzati dall’idea di venire uccisi da una donna, perché tale morte non garantirebbe loro l’accesso al paradiso corredato delle leggendarie 42 vergini, ritirandosi come se avessero visto un fantasma di fronte alle soldatesse.
Ancora una volta inconcepibile, per gran parte del mondo occidentale, sono le donne-kamikaze. La prima donna kamikaze nella guerra contro l’Isis si chiamava Arin Mirkin ed era madre di due figli. Si sarebbe fatta saltare in aria dopo aver finito le munizioni, uccidendo diversi jihadisti. Il fenomeno delle donne kamikaze non è nuovo. La prima che decise di immolarsi fu Sana Khyadali, una giovane libanese di 16 anni.
Sana si fece esplodere il 9 aprile 1985 al volante di un’auto imbottita di tritolo, vicino ad un convoglio militare israeliano, per questo morirono due soldati. Fu la prima donna a commettere un attentato suicida in Medio Oriente. Successivamente, tra il 1985 e il 1986 vi furono altre cinque donne kamikaze in Libano.
Negli anni successivi il fenomeno si espanse (Sri Lanka, Israele, Cecenia, Turchia, India, Pakistan, Uzbekistan e Iraq), e nell’arco di un ventennio, tra il 1985 e il 2006, più di 220 donne kamikaze si sono fatte esplodere.
Ricordiamo due donne artefici dell’esplosione della metropolitana di Mosca nel marzo 2010, uccidendo 27 persone. Così come nel 2004 nel massacro della scuola di Beslan, nella repubblica russa dell’Ossezia (344 vittime tra cui 186 bambini), vi erano anche due donne. Nel 2002 tra i terroristi che sequestrarono 700 persone al teatro Dubrovka di Mosca erano diciannove le donne. Le “vedove nere” di Allah, così venivano chiamate le combattenti cecene disposte a tutto pur di vendicare mariti, i fratelli e figli morti in guerra.
Numerose le donne kamikaze anche in Iraq: la prima nell’aprile 2003, poco prima della caduta di Baghdad. Poi due anni di tregua, seguiti da un crescendo impressionante. L’ideatore delle martiri fu al-Zarqawi. Nel 2006 il governo iracheno diffuse un elenco di 122 aspiranti kamikaze fermate per tempo. Gli attentati sanguinosi furono numerosi. La provincia di Diyala, roccaforte della guerriglia sunnita, era addirittura considerata la fucina delle “fidanzate di Allah”.
Fanatismo, ignoranza, voglia di riscatto. I motivi che possono spingere una donna a farsi saltare in aria sono, grosso modo, gli stessi che muovono un uomo. In più, come emerge da alcuni studi, gioca un ruolo importante, soprattutto nella cultura islamica, il desiderio di emancipazione della donna. In alcuni casi anche la disperazione per una vita piena di violenze e discriminazioni.
Il paradosso è che la discriminazione non trova fine nemmeno dopo il martirio. Arin Mirkin, l’ultima kamikaze donna morta, è un caso diverso dagli altri elencati sopra. Non si è immolata per compiere un attentato suicida. Lo ha fatto durante una battaglia. Ormai non aveva pià munizioni (così ci hanno raccontato) ma lei non voleva cedere di un millimetro. E, soprattutto, non voleva essere catturata e diventare schiava dei miliziani dell’Isis, conoscendo bene il trattamento che le sarebbe stato riservato. Così ha preferito la morte, la morte che a volte è preferibile alla vita ingiusta, crudele, di moltissime donne che hanno la sola colpa di essere nate e cresciute in quelle terre tormentate.