Affiliati al clan, dediti alla gestione di affari illeciti, pestati e accusati di aver derubato l’organizzazione e pertanto costretti a lavorare gratuitamente fino a quando il danno economico così arrecato non può definirsi estinto. Una strategia ordita ad arte dal clan D’Amico operante nel rione Conocal di Ponticelli per alleggerire le casse dell’organizzazione dall’onere di corrispondere gli stipendi agli affiliati.
Ha destato non poco scalpore tra gli abitanti del quartiere il pestaggio della donna a capo di una piazza di droga, gestita per conto dei D’Amico in un appartamento al via Al chiaro di Luna, accusata di aver derubato il clan trattenendo parte dei proventi dello spaccio e successivamente costretta a dar man forte all’impresa di pulizie riconducibile alla stessa organizzazione, impegnandosi a lavorare gratuitamente per estinguere il debito.
Non si tratterebbe di un caso isolato.
Ad altri affiliati dediti all’attività di spaccio di stupefacenti per conto dei cosiddetti “fraulella” sarebbe stato riservato lo stesso trattamento: un modus operandi dal quale trapela una vera e propria strategia avviata per ridurre le spese, non solo cancellando il nome di alcuni affiliati dal libro paga, ma anche costringendoli a lavorare gratuitamente per il clan che così riesce a sfruttare dei “dipendenti” traendo il massimo beneficio dal loro operato. Una valutazione ancora più verosimile, se si tiene conto dei tassi d’interesse da capogiro applicati ai debiti da saldare. Un ulteriore espediente che consente al debito di lievitare all’infinito, continuando a produrre guadagni, in termini di forza-lavoro e non solo, per il clan.
Anche il 18enne gambizzato lo scorso 10 novembre in via Luigi Franciosa era finito nel circolo vizioso avviato dai D’Amico per trasformare gli affiliati in veri e propri “schiavi”. Fino allo scorso giugno, il giovane gestiva una piazza di droga per conto del clan del Conocal e solo in seguito all’ultimatum imposto dai vertici della cosca sarebbe confluito nel gruppo di giovanissimi al soldo dei Casella. Accusato di aver fatto confluire nelle casse del clan solo parte dei proventi dell’attività di spaccio di stupefacenti da lui gestita, quando al 18enne è stato imposto di continuare a lavorare per l’organizzazione gratuitamente per estinguere il debito così contratto, ha bruscamente interrotto i rapporti con i D’Amico e ha cambiato casacca. Un retroscena che legittima l’ipotesi che l’agguato a lui indirizzato possa essere stato ordito per punirne l’atto di ribellione, oltre al “tradimento” perpetrato passando dalla parte della cosca rivale con la quale i D’Amico sono in conflitto da diversi mesi, ormai.
Quella che tramuta gli affiliati in “servi alla mercé del clan” sarebbe una strategia avviata già nel periodo in cui l’organizzazione era capeggiata da Vincenzo Costanzo, il 26enne nipote acquisito del boss Antonio D’Amico ucciso in un agguato di camorra lo scorso maggio, mentre le strade del capoluogo campano erano in festa per la vittoria del terzo scudetto del club partenopeo.
Una politica intransigente che mira a non fare sconti a nessuno, pur di privilegiare le finanze dell’organizzazione. Una strategia cinica e lungimirante che mira a far leva soprattutto sull’impossibilità dei soggetti finiti nel mirino del clan di provare la loro estraneità ai fatti contestati, anche perchè consapevoli che nel gergo malavitoso regna la regola del più forte e un semplice gregario sa bene di non disporre del peso camorristico necessario per sfidare “i capi” collocati al vertice dell’organizzazione. I sodali più irriverenti si sono ribellati, arrivando perfino a cambiare casacca, mentre altri hanno preferito soccombere e sottostare alle angherie imposte dal clan, seppure questo voglia dire lavorare gratuitamente per garantire guadagni all’organizzazione chissà per quanto tempo.