Rukmini Callimachi, corrispondente del New York Times in materia di terrorismo, ha scritto un articolo molto documentato sulla schiavitù sessuale a cui sono costrette le donne yazide dai miliziani dello Stato Islamico o ISIS, che dir si voglia.
Di violenze e stupri contro le donne yazide in Iraq e in Siria si parla da tempo, ma l’articolo di Callimachi è uno dei più completi scritti finora sull’argomento: racconta come l’ISIS abbia di fatto teorizzato la schiavitù sessuale e l’abbia pianificata nei minimi dettagli ancora prima di metterla in pratica. Descrive quello che centinaia di donne yazide stanno subendo e dimostra come alcune delle conquiste dell’ISIS non abbiano avuto come obiettivo un avanzamento territoriale, ma siano state piuttosto “conquiste sessuali” preparate meticolosamente.
L’articolo di Callimachi si intitola “ISIS Enshrines a Theology of Rape”: “L’ISIS celebra una teologia dello stupro” e si basa sulle testimonianze di 21 donne e ragazze yazide rapite dall’ISIS e poi scappate, e sulle comunicazioni ufficiali diffuse dallo stesso gruppo.
Era il 3 agosto del 2014 quando lo Stato Islamico annunciò di avere ripristinato l’istituzione della schiavitù sessuale, che tra le altre cose prevede dei contratti di vendita autenticati dai tribunali islamici istituiti dall’ISIS.
L’ISIS ha sistematicamente giustificato la schiavitù sessuale tramite un’interpretazione particolare dell’Islam.
Più di recente il “dipartimento della ricerca e della fatwa” dell’ISIS ha diffuso un manuale di 34 pagine sulle regole di “gestione” delle schiave.
Nel manuale si legge per esempio che non si possono avere rapporti sessuali con la propria schiava prima che lei abbia il primo ciclo mestruale, in modo da verificare che non sia incinta (non è possibile invece avere rapporti quando la donna è incinta). In generale, scrive Callimachi, non ci sono molti limiti a ciò che è permesso fare alle schiave: si possono anche stuprare le bambine, per esempio.
Allo stesso tempo le schiave del Califfato islamico possono essere liberate dai loro proprietari tramite un “Certificato di emancipazione”.
I sopravvissuti degli attacchi dell’ISIS della scorsa estate hanno raccontato cosa fanno i miliziani dopo avere conquistato una città yazida. Per prima cosa dividono le donne dagli uomini. Ai ragazzi adolescenti è chiesto di alzare la maglietta: se hanno peli sul petto finiscono nel gruppo degli uomini, se non li hanno in quello delle donne.
Gli uomini, costretti a sdraiarsi con la faccia a terra, vengono uccisi. Le donne vengono invece caricate su dei furgoni e portate via in una città vicina. Qui le ragazze più giovani e non sposate vengono fatte salire su degli autobus bianchi con la scritta “Haji”, il termine che indica il pellegrinaggio a La Mecca: sui finestrini degli autobus sono bloccate delle tendine, un accorgimento che sembra essere preso per evitare che da fuori si vedano delle donne non coperte con il burqa o con il velo in testa. Le donne vengono riunite anche a migliaia in grossi edifici di una città irachena e poi ritrasferite in altre città dell’Iraq e della Siria per essere vendute.
L’ISIS si riferisce alle donne messe in schiavitù con il termine “Sabaya” seguito dal loro nome. Le donne e le ragazze più belle e giovani, vengono in genere comprate entro poche settimane dopo essere state rapite. Altre, le donne più anziane o già sposate, vengono trasferite più volte da un posto all’altro in attesa di essere vendute. Alcuni degli edifici in cui vengono tenute le donne rapite hanno anche una stanza usata dagli uomini per scegliere la donna da comprare.
Una ragazza di 19 anni ha raccontato la sua esperienza in un mercato delle schiave: «Gli emiri stavano appoggiati contro il muro e chiamavano il nostro nome. Dovevamo rimanere sedute su una sedia di fronte a loro. Dovevamo guardarli. Prima di entrare nella stanza ci toglievano i veli e tutti i vestiti».