Nei giorni scorsi, al Liceo Classico Giulio Cesare di Roma, nei bagni maschili è comparsa una scritta agghiacciante: “Lista degli stupri”, seguita da una serie di nomi di studentesse (e di un maschio) dell’istituto.
Le reazioni sono state immediate: sdegno, paura, rabbia. Alcune studentesse hanno denunciato l’accaduto; associazioni, movimento studentesco e femministe hanno denunciato la violenza di genere e condannato fermamente la minaccia, l’intimidazione, e il segnale di una cultura patriarcale ancora radicata.
I dirigenti della scuola sono stati ascoltati in Questura: per la prima volta la “lista” viene trattata come possibile istigazione a delinquere.
Pochi giorni dopo, al Liceo Scientifico Vallisneri di Lucca è apparsa una nuova “lista stupri”, con i nomi di due ragazze, accompagnata da disegni offensivi. Anche lì il gesto è stato denunciato e le autorità hanno fatto partire accertamenti.
Il fenomeno non può essere interpretato come una “bravata” o un atto isolato: nei fatti trascende la singola matricola o classe, e apre uno squarcio su una cultura diffusa che riduce corpi e persone a oggetti da violare, “marcare”, intimidire. Il fatto che le liste vengano scritte nei bagni della scuola, spazi spesso considerati “privati o tra soli maschi”, rende ancora più grave il messaggio: la violenza come minaccia e controllo.
Chi ha posto i nomi su quelle liste non stava pensando a uno scherzo: ha voluto affermare un potere, un dominio, una resa dei conti tra coetanei, con la complicità di un contesto che spesso trivializza il sessismo.
Rimuovere graffiti, ripulire un bagno, convocare assemblee sono azioni necessarie, ma insufficienti. C’è bisogno di interventi educativi strutturali, di un percorso reale di educazione sessuale e al consenso, di ascolto, di empatia.
Il sentimento dominante, tra chi denuncia, tra le stesse vittime, e tra la comunità scolastica, è che queste “liste” non nascono da una generazione “confusa”, ma da una cultura patriarcale e di violenza che si tramanda, silenziosa ma presente. E ignorarla significa esserne complice.
Le istituzioni scolastiche, le famiglie, le organizzazioni studentesche, le associazioni dovrebbero assumere una responsabilità collettiva: la scuola non può essere solo luogo di apprendimento tecnico, ma deve diventare spazio di rispetto, uguaglianza, consapevolezza.
Serve che i casi come quello di Roma e Lucca non restino episodi isolati, ma diventino campanelli d’allarme: per educare sul rispetto, per proteggere chi è vulnerabile, per costruire relazioni sane e consapevoli.
Chi subisce intimidazioni, violenze psicologiche o minacce, nelle scuole, nelle chat, per strada, non è solo ed è parte vulnerabile di una società che ha bisogno di cambiarla sul serio. Cancellare una scritta non basta se resta viva la violenza nel pensiero.








