Il “massacro di Ponticelli”, l’efferato delitto di due bambine avvenuto negli anni ’80 nel quartiere della periferia orientale di Napoli, non ha distrutto solo le vite delle due piccole e dei loro familiari, ma anche quelle di tre giovani ragazzi, condannati all’ergastolo in quanto ritenuti responsabili dell’efferato duplice omicidio, seppure numerosi elementi ne provavano l’innocenza.
Ciro Imperante, Luigi Schiavo e Giuseppe La Rocca erano tre ragazzi di età compresa tra i 18 e i 20 anni. Originari del comune di San Giorgio a Cremano, erano soliti frequentare con le loro fidanzate e altri amici il cortile del rione Incis di Ponticelli dove le bambine erano solite intrattenersi a giocare, sorvegliate dai balconi dai genitori. La sera del 2 luglio del 1983, quando Nunzia Munizzi e Barbara Sellini, le due bambine di 10 e 7 anni, furono viste allontanarsi dal rione per recarsi a un appuntamento con un ragazzo più grande, i tre giovani non erano a Ponticelli. E non erano neanche insieme.
Luigi Schiavo aveva 18 anni, non voleva più saperne di studiare, dopo la bocciatura al terzo anno di scuola superiore aveva trovato un lavoro saltuario come muratore, in attesa del congedo militare e di un lavoro stabile. Quella sera aveva combinato “un uscita a quattro”: insieme a un amico, alla sua fidanzata e alla sorella erano andati in Costiera Amalfitana.
Giuseppe La Rocca era un fabbro 18enne che coltivava il sogno di aprire una piccola fabbrica. Quel sabato sera, al termine della giornata di lavoro, andò a prendere la sua fidanzata in una discoteca di Volla, frequentatissima dai giovani del posto, a bordo della sua vistosa Vespa.
Ciro Imperante, aveva 20 anni, aveva vinto il concorso e si accingeva ad indossare la divisa della guardia di finanza. Quella sera andò insieme a un amico a San Giovanni a Teduccio a prendere il suo motorino, custodito nel garage di un amico che era al mare a Castel Volturno. Trovò la saracinesca chiusa e chiese aiuto ai condomini per recuperare le chiavi, senza riuscirci. Quindi i due amici fecero ritorno a casa in autobus.
I cadaveri delle due bambine furono trovati il giorno seguente, al culmine di una disperata notte di ricerche che coinvolse tutti gli abitanti del rione. Violentate, seviziate, torturate, uccise e infine i corpi furono bruciati.
Un delitto che ha comprensibilmente scosso l’opinione pubblica che invocava a gran voce giustizia per le bambine e al contempo esigeva che “il mostro” fosse stanato per non convivere con la paura che potesse mietere altre vittime. In questo clima, al culmine di indagini piene di lacune ed errori, condotte con metodi tutt’altro che ortodossi, servendosi di torture e minacce, vengono gettati in pasto alla gogna mediatica i tre ragazzi. E’ bastato mostrarli ammanettati mentre venivano condotti in carcere per consegnare agli italiani quello che chiedevano: “i mostri” erano stati arrestati due mesi dopo il duplice omicidio e tutti potevano tirare un sospiro di sollievo.
“Gli elementi contro di noi sono stati creati ad arte sulla caserma Pastrengo, affinchè arrivassero a un colpevole, chiunque fosse. L’importante era mandare qualcuno in carcere per zittire e accontentare l’opinione pubblica che però chiedeva di stanare “il vero colpevole.”
Affermazioni pesanti, quelle esternate dai tre ragazzi, costretti a diventare uomini in carcere per scontare una pena ingiusta.
Seppure disponessero di decine di testimoni in grado di confermare che la sera in cui vennero uccise le bambine non erano a Ponticelli e non erano neanche insieme, i tre ragazzi sono andati incontro allo stesso destino: condannati all’ergastolo in via definitiva sulla base delle dichiarazioni di “un supertestimone”, Carmine Mastrillo. Un giovane abitante del rione Incis, invalido, aveva perso una gamba in seguito a un incidente, al quale i carabinieri chiesero di guidarli nelle indagini, indicandogli le persone da ascoltare, oltre a rivelare tutte le informazioni di cui era a conoscenza. Fin dal primo momento, Mastrillo dichiara di non disporre di elementi utili e di non avere sospetti su nessuno, poi la sua versione cambia radicalmente. Lasciato solo in una stanza a riflettere, durante l’ennesimo interrogatorio nella caserma Pastrengo di Napoli, viene istruito dal pentito Mario Incarnato, ex luogotenente di Cutolo, anche lui di Ponticelli. Mastrillo punta il dito contro i tre ragazzi, indicandoli come gli autori del “massacro” e lo fa fornendo una ricostruzione dei fatti alquanto fantasiosa, oltre che sbugiardata dai pochi elementi certi, in primis, quelli emersi dall’autopsia sui corpi martoriati delle bambine. Inoltre, Mastrillo in aula ritrattò le accuse contro i tre, dopo una breve sospensione, seduto nuovamente al banco dei testimoni, tornò ad accusarli: sulla sola base della deposizione resa da un testimone reticente Ciro, Giuseppe e Luigi sono stati condannati all’ergastolo in via definitiva.
“Avevano la possibilità di trovare il vero colpevole e arrestarlo e invece hanno preferito lasciarlo libero. La polizia probabilmente lo aveva tra le mani. I carabinieri, invece, non hanno fatto altro che torturare i ragazzi del rione affinché venisse fuori una falsa verità. E così è accaduto. Ci hanno mandato all’ergastolo in assenza di prove, malgrado abbiano fatto di tutto per trovarne, senza mai riuscirci.“. Sono molteplici gli elementi che confermano quest’ultima affermazione.
Prima di tutto, il fatto che durante gli interrogatori in caserma, non solo i tre furono torturati, ma anche indotti a confessare mostrandogli dei verbali falsi firmati dai loro amici con la chiara intenzione di spingerli ad accusarsi a vicenda, ma questo non è mai accaduto. Una strategia che ha fatto leva soprattutto sulla vulnerabilità del giovane che in quella situazione aveva più da perdere: Ciro Imperante, un 20enne in procinto di entrare in Guardia di Finanza. La convocazione arrivò due settimane dopo l’arresto.
Proprio mentre era in carcere ha ricevuto la visita di un giudice che gli offrì la possibilità di uscire da quell’incubo: gli bastava accusare i due amici, ma Ciro si rifiutò. Ha preferito scontare l’ergastolo da innocente insieme ai suoi amici, pur di non tradirli.
“La mia posizione era diversa rispetto a quella di Luigi e Giuseppe. – racconta Ciro Imperante – Quando eravamo nel carcere di Poggioreale, un giudice venne più volte a farmi visita per convincermi ad accusare i miei amici, così sarei stato scarcerato. Ho preferito scontare l’ergastolo da innocente insieme a loro, ma non accusare due ragazzi che so essere innocenti come me. Come avrei potuto dormire con la coscienza a posto accusando due innocenti? Avrei salvato la mia vita relativamente, perché avrei vissuto peggio di come ho fatto in carcere. Ho condiviso la loro sorte, lottando insieme a loro e contento di avere la coscienza pulita e ancora adesso che ho 60 anni sto lottando insieme a loro per avere giustizia, non tanto per la mia persona, ormai sono un uomo di 60 anni, ma per i miei figli e per quelli di Giuseppe, per le nostre famiglie che meritano di camminare a testa alta.”
L’amicizia, sincera e profonda che li lega, ha fatto la differenza.
La possibilità di condividere quel calvario, dall’inizio alla fine, vivendo in simbiosi, ha consentito ai tre ragazzi di superare quell’incubo.
Ciro, Giuseppe e Luigi sono rimasti a Spoleto, hanno scelto di restare uniti, anche lontano dalla cella che hanno condiviso per 27 anni: “Sarebbe difficile pensare di continuare la vita uno lontano dall’altro, dopo tutto quello che abbiamo vissuto e condiviso insieme. Questa storia ci ha reso dei gemelli siamesi, legati dallo stesso destino.”
Ciro, Giuseppe e Luigi, nell’arco dei 40 anni trascorsi da quel tragico giorno, non hanno mai smesso di dichiararsi innocenti e, insieme, continuano a chiedere verità e giustizia.