È la fine di un’epoca. Nella giornata di martedì 4 agosto è stata ufficialmente rimossa l’insegna della Jabil dallo stabilimento di Marcianise, segnando simbolicamente e materialmente la chiusura definitiva di uno dei poli industriali più importanti del Sud Italia.
Davanti ai cancelli, ormai vuoti, l’amarezza e l’incredulità dei lavoratori è stata palpabile. Per molti, quella scritta non era solo un logo aziendale, ma un punto fermo nella propria vita, un simbolo di stabilità e dignità lavorativa.
La chiusura dello stabilimento non è arrivata all’improvviso. Da anni si susseguivano segnali preoccupanti: riduzione del personale, cassa integrazione, mancate commesse, promesse di rilancio mai mantenute. Jabil, multinazionale americana dell’elettronica, aveva più volte rassicurato le istituzioni sulla volontà di rilanciare il sito campano, ma i fatti hanno raccontato un’altra storia.
Dopo mesi di trattative infruttuose, lettere di licenziamento e appelli ai ministeri, l’ultimo gesto simbolico è arrivato con la rimozione del marchio dall’ingresso principale. Un atto che ha spezzato il cuore di centinaia di operai, tecnici, impiegati, molti dei quali hanno trascorso oltre 20 anni all’interno di quella fabbrica.
Molti si sono ritrovati senza alternative occupazionali in un territorio già piegato dalla disoccupazione. Alcuni sono stati coinvolti in progetti di ricollocazione, altri attendono da mesi una risposta concreta dalle istituzioni.
La Regione Campania e il Ministero del Lavoro avevano più volte promesso interventi per salvaguardare il sito produttivo, ma il tempo è trascorso tra tavoli tecnici e rimpalli di responsabilità. Il presidente De Luca ha definito la chiusura «una sconfitta dolorosa», ma molti lavoratori accusano le istituzioni di aver lasciato morire lentamente una realtà che avrebbe potuto essere rilanciata con investimenti e strategie mirate.
Oggi dell’impero Jabil a Marcianise restano capannoni vuoti e promesse non mantenute. Il timore è che l’area industriale venga abbandonata o peggio, svenduta. Le sigle sindacali chiedono a gran voce un piano concreto di reindustrializzazione, con l’ingresso di nuovi soggetti capaci di creare occupazione vera, non semplici progetti sulla carta.
La chiusura della Jabil non è solo una questione economica: è il simbolo di un fallimento collettivo. È la storia di un Sud produttivo che continua a essere dimenticato, dove ogni insegna rimossa è un colpo al cuore di un’intera comunità.