“Dottorè, a furia di sentirvi dire che la camorra è un tumore, me ne sono convinto e adesso che a mia moglie hanno diagnosticato la malattia ho fatto un patto con Dio: io vi aiuto a sconfiggere questo tumore e spero che Dio ne tenga conto e salvi mia moglie”.
E’ iniziato con queste parole, a gennaio del 2024, il percorso di redenzione di Giovanni Braccia, figura apicale del clan De Martino di Ponticelli, imparentato con i D’Amico di San Giovanni a Teduccio e del rione Conocal di Ponticelli. Parole che ha indirizzato alla giornalista Luciana Esposito, direttrice di Napolitan.it che da anni racconta le dinamiche camorristiche che si avvicendano tra le strade di Ponticelli. Da quel momento ha iniziato a collaborare attivamente alle sue inchieste, fornendo un contributo determinante alla ricostruzione dei principali fatti di cronaca avvenuti nella periferia est di Napoli negli ultimi anni e non solo.
A riprova della sua buona fede, Braccia consegnò alla direttrice di Napolitan numerosi documenti utili a ricostruire i business illeciti gestiti dal clan, in primis la compravendita degli alloggi popolari e le pratiche pensionistiche fittizie che hanno consentito a diversi esponenti della criminalità locale di percepire indebitamente una pensione di invalidità civile, come nel caso del boss Francesco De Martino. Documenti che Braccia riceveva dalle mani del suo collaboratore più fidato, nonché braccio destro: Vincenzo Sollazzo, consigliere della VI Municipalità di Napoli e gestore di un caf e patronato nel rione Conocal, al servizio dei clan.
Un percorso di redenzione che ha portato Braccia a collaborare immediatamente con la giustizia, in seguito al suo arresto avvenuto lo scorso 3 ottobre, nell’ambito di un blitz che ha tradotto in carcere 60 affiliati al clan De Micco-De Martino. Un pentimento importante, destinato a rivelarsi cruciale, se non decisivo per decidere le sorti degli scenari camorristici della periferia orientale di Napoli.
Quando si parla di collaboratori di giustizia, spesso si tende a generalizzare, immaginandoli tutti spinti esclusivamente dall’opportunismo: uno scambio freddo tra libertà personale e informazioni da fornire allo Stato.
La realtà, però, è più complessa e umana.
È vero che alcuni scelgono di collaborare mossi dal calcolo, per ottenere sconti di pena o una nuova vita lontano dal passato. Ma per altri la decisione nasce da un percorso interiore più profondo: c’è chi, travolto da drammi personali, tradimenti, lutti o dal peso insostenibile delle proprie azioni, sente il bisogno di riscattarsi. In questi casi, la collaborazione non è solo una scelta pragmatica, ma anche un modo per ricostruire un senso di giustizia dentro di sé.
Dietro ogni collaboratore di giustizia c’è una storia. Alcune fredde e strategiche, altre segnate da sofferenze autentiche e da un vero desiderio di cambiamento. Generalizzare sarebbe un errore: occorre sempre guardare alle singole vicende, alla luce e alle ombre che ciascuna porta con sé. E la travagliata storia di Giovanni Braccia, lo conferma.