Si dichiarava pronto a tornare a Ponticelli per uccidere donne e bambini, Vincenzo Sarno, il boss di Ponticelli che ha continuato a vivere e pensare da boss, anche mentre si trovava sotto protezione, dopo aver avviato il percorso di collaborazione con la giustizia nel 2009.
Per oltre 15 anni ha fatto il bello e il cattivo tempo, continuando a delinquere e manifestando una condotta palesemente in contrasto con la decisione di voltare le spalle alla camorra per passare dalla parte dello Stato, pur rendendo dichiarazioni che hanno contribuito a scrivere la parola fine alla prima era del clan Sarno.
Il 54enne, ex boss di Ponticelli, autore di plurimi omicidi efferati si stava organizzando per rifondare il clan. Quel cognome, il suo cognome, non poteva sparire dalla storia di Ponticelli. Non riusciva ad accettare che “il suo quartiere” fosse controllato da altri. Il suo intento era infatti quello di tornare nel quartiere che ha tenuto sotto scacco per decenni, insieme ai fratelli Pasquale, Ciro, Giuseppe e Luciano, prima di intraprendere il percorso di collaborazione con la giustizia. Una decisione che ha decretato la fine di un’era camorristica lunga circa 30 anni con un prevedibile terremoto giudiziario che ha portato a numerosi arresti e pesanti condanne. Le dichiarazioni rese dai fratelli Sarno e dalle altre figure apicali del clan che hanno deciso di seguire gli ex boss di Ponticelli hanno contribuito a risolvere decine di omicidi irrisolti e soprattutto a far luce su una delle stragi più violente della storia della Campania, quella che si consumò nei pressi del bar Sayonara l’11 novembre del 1989. Furono ben sei le vittime, tra le quali quattro persone estranee alle dinamiche camorristiche. Una mattanza punita con l’ergastolo per tutti i partecipanti, tra i quali figurano anche ex affiliati al clan Sarno che avevano deciso di non voltare le spalle al codice d’onore camorristico.
Lo scenario che si è delineato per effetto di questa situazione ha inciso fortemente sulle vite di molte persone rimaste a Ponticelli e in particolare nel rione de Gasperi, un tempo fortino del clan Sarno. Uno dei luoghi più condizionati dalla politica dei Sarno, prima da boss e poi da collaboratori di giustizia. Uno dei tanti rioni di Napoli e provincia dove lo Stato latita e la camorra dilaga. Proprio lì, sui relitti del clan Sarno, “le pazzignane” hanno rifondato i business illeciti per provare a tenere in piedi la credibilità camorristica della famiglia decapitata del boss, marito, padre. Soprattutto per questo gli arresti e le condanne scaturite dal pentimento dei Sarno hanno sancito un punto di non ritorno che ha sortito conseguenze terribili.
Non a caso, dopo anni trascorsi alle mercé degli altri clan più strutturati, quando le “pazzignane” sono riuscite a conquistare un posto autorevole nel contesto camorristico ponticellese, hanno sfruttato quello status anche per portare a compimento l’agognata vendetta nei riguardi dei fratelli Sarno, artefici della loro disfatta che con le dichiarazioni rese alla magistratura hanno costretto al “fine pena mai” gli “uomini d’onore” che non hanno voluto prendere le distanze dalla malavita.
La vendetta delle pazzignane è stata spietata: il primo disegno criminale, portato a compimento alla vigilia della sentenza definitiva per i responsabili della strage del bar Sayonara, portò all’omicidio di un lavoratore onesto, estraneo alle dinamiche camorristiche, nonché padre e nonno, amato e benvoluto da tantissimi ponticellesi. Mario Volpicelli, 52 anni, commesso in una merceria, fu freddato mentre rincasava al termine dell’ennesima giornata di lavoro, mentre stringeva le buste della spesa tra le mani, la sera del 30 gennaio 2016. Condannato a morte da un duplice vincolo di parentela: Mario era il marito di una sorella dei Sarno, ma anche lo zio di Gennaro Volpicelli, killer dei De Micco, accusato dell’omicidio di Antonio Minichini, figlio della lady-camorra Anna De Luca Bossa e del boss Ciro Minichini. Dal loro canto, le famiglia Minichini e De Luca Bossa condividevano con le “pazzignane” l’odio atavico verso i Sarno, un sentimento che ha funto da collante tra i clan che entrarono in affari anche per compiere quella vendetta attesa da anni.
La sentenza del 13 febbraio 2016 confermò l’ergastolo per tutti gli imputati: Ciro Sarno, Antonio e Giuseppe Sarno, Giovanni, Ciro e Gennaro Aprea, Vincenzo Acanfora, Luigi Piscopo, Gaetano Caprio, Roberto Schisa, Pacifico Esposito. Sedici anni per Giuseppe Esposito.
Non si fece attendere il secondo agguato dei clan alleati di Napoli est, voluto per infliggere un altro duro colpo ai Sarno: la sera del 6 marzo del 2016, un killer solitario si introduce nel basso del rione De Gasperi dove dimora Giovanni Sarno, fratello degli ex boss di Ponticelli, disabile e alcolizzato, per ucciderlo nel sonno. I parenti furono avvisati da una citofonata, probabilmente opera dello stesso killer.
Gli alleati stavano pianificando un altro omicidio, quello della figlia del boss Vincenzo Sarno, ma quel disegno criminale fu mandato in fumo dalla decisione di mettere fine alla mattanza disponendo l’allontanamento da Ponticelli di tutti i familiari dei Sarno. Un provvedimento che cancellò da Ponticelli ogni traccia della famiglia Sarno.
Uno smacco che il boss Vincenzo Sarno si preparava a vendicare a sua volta, intenzionato a consegnare il conto agli artefici dell’omicidio di suo cognato e suo fratello. Intendeva ripagarli con la stessa moneta, senza esclusioni di colpi, senza pietà per nessuno, donne e bambini inclusi.
Un disegno criminale che sicuramente ha fatto rivoltare nella tomba suo cognato Mario che di quel vincolo di parentela non si è mai vantato, anzi. A suon di sorrisi, frasi gentili e gesti generosi era riuscito a scrollarsi di dosso quell’ingombrante etichetta e con lei il disonore e la vergogna di essere imparentato, seppure indirettamente, con una famiglia camorristica. Eppure, non è bastato a salvargli la vita e a renderlo immune da quelle logiche criminali con le quali non aveva nulla da spartire.
Sacrificato da vivo per effetto della vigliaccheria dei suoi aguzzini, mortificato da defunto dalla delirante smania di onnipotenza di suo cognato Vincenzo, incapace di uscire di scena dignitosamente e di adottare una condotta coerente con la decisione intrapresa.
Un’umiliazione che Mario Volpicelli non avrebbe meritato. Il suo nome, riportato in un’ordinanza di custodia cautelare e accostato a parole come “vendetta” e “strage” offende e disonora la sua storia terrena, l’ulteriore parentesi infelice e scellerata imposta dalla camorra e dai suoi interpreti più spietati alla storia di un uomo buono che non avrebbe meritato di morire e neanche di essere impropriamente utilizzato come pretesto per giustificare una vendetta che sicuramente non avrebbe né richiesto né gradito.
Anche per questo, soprattutto per questo ennesimo, infelice capitolo che concorre a gettare un ulteriore velo di tristezza sul suo omicidio, Mario Volpicelli merita di ricevere quella giustizia che gli consentirà di riposare in pace.