Roberto D’Ambrosio, 51 anni, fondatore dell’omonimo clan che dal 2016 al 2019 ha seminato il panico tra commercianti ed imprenditori dei comuni dell’entroterra vesuviano al confine con Ponticelli, nonché protagonista indiscusso delle principali gesta camorristiche che hanno segnato la nascita e l’ascesa dell’organizzazione da lui capeggiata.
Il debutto di D’Ambrosio nel contesto malavitoso avviene negli anni 2000 in veste di recluta del clan Fusco-Ponticelli, sotto le direttive di Gianfranco Ponticelli. Un’organizzazione radicata a Cercola e San Sebastiano al Vesuvio che si contrapponeva al clan Sarno, tant’è vero che D’Ambrosio fu ferito in un agguato sul quale c’era la firma di leader di Ponticelli che ne punirono l’intenzione di gestire in autonomia le estorsioni nei comuni del vesuviano a ridosso del quartiere della periferia orientale di Napoli. Durante il terremoto di arresti e pentimenti che decretò la fine dell’era dei Sarno, D’Ambrosio confluì prima nel clan Anastasio e poi tra le fila dei De Micco, i cosiddetti “Bodo” di Ponticelli. Tornato in libertà dopo un lungo periodo di detenzione ha nuovamente cambiato casacca per confluire nel gruppo costituito dagli Schisa-De Luca Bossa-Minichini, fino a costituire una vera e propria costola dell’organizzazione dislocata nel comune di Cercola e per conto della quale era prettamente dedito alla pratica di estorsioni e vendita di droga.
Uno scenario che matura in un momento storico ben preciso: nel novembre del 2017, un blitz concorre a decapitare il clan De Micco facendo scattare le manette per 23 figure di spicco dell’organizzazione. In carcere non finisce solo il boss Luigi De Micco, ma anche il killer Antonio De Martino e gli altri affiliati autorevoli che consentivano al sodalizio camorristico di preservare il controllo del territorio. Un evento che ha indebolito la cosca egemone a Ponticelli e che creò le circostanze propizie che hanno favorito l’ascesa del cartello costituito dai vecchi clan di Napoli est, di cui, come detto, il clan D’Ambrosio rappresenta a tutti gli effetti una ramificazione nel comune di Cercola, compresa la frazione di Caravita, mentre sul territorio di Sant’Anastasia e zone limitrofe, riuscì ad imporsi come gruppo autonomo.
Una leadership conquistata servendosi delle cattive maniere: raid intimidatori, ordigni esplosivi, agguati, estorsioni violente, minacce. Un modus operandi che ha favorito l’ascesa del clan che in breve tempo è riuscito ad imporsi nei comuni dell’entroterra vesuviano, servendosi anche della forza intimidatrice sprigionata dall’evocazione del clan De Luca Bossa alias “quelli di Bartolo Longo”, la strada che costeggia il rione Lotto O, fortino dell’organizzazione.
Un clan sgominato dal blitz che lo scorso 28 novembre ha portato all’arresto di D’Ambrosio e di altri 15 soggetti, ritenuti contigui non solo all’omonimo clan, ma anche di alcun affiliati al clan De Bernardo, la fazione antagonista operante nei comuni del vesuviano e riconducibile ai Mazzarella. I destinatari del provvedimento sono accusati a vario titolo di tentato omicidio, estorsione, detenzione e porto illegali di armi, spaccio di sostanze stupefacenti.
Un’operazione che ha consentito di accertare la forza intimidatrice, lo spessore criminale, l’influenza del clan e la politica di assoggettamento sistematicamente avviata dai referenti dell’organizzazione per sottomettere le vittime ai ricatti estorsivi e al contempo creare un clima di omertà e timore utile a favorire l’ascesa della cosca. Particolarmente indicativo del potere conquistato da D’Ambrosio il fatto che alcune vittime lo hanno interpellato per chiedergli di fungere da mediatore quando ricevevano richieste estorsive da parte di altri clan, come avvenne nel caso di un ristoratore di Cercola che forniva gratuitamente pasti e pietanze al reggente dell’organizzazione che intervenne in suo favore quando gli furono indirizzate richieste estorsive da altri clan. Ugualmente indicativa la posizione del titolare di una tavola calda di Sant’Anastasia che si sentiva in dovere di consegnare a D’Ambrosio e ai suoi familiari cibi e prodotti vari a titolo gratuito, pur senza aver mai ricevuto vere e proprie intimidazioni o richieste estorsive. Anche lui si rivolse a D’Ambrosio per chiedergli di intercedere in favore di un amico destinatario di richieste estorsive.
Forte del supporto di affiliati ugualmente spietati, quali Massimiliano Baldassarre detto ‘a serpe e sua sorella Arca, Fiorentino Eduardo Mammoliti – nipote dei fratelli Salvatore e Bruno Solla, fedelissimi del clan De Luca Bossa uccisi in due distinti agguati di camorra – Raimondo Tubelli, cognato di Mammoliti, Ferdinando Gerardo Russo, Sbrescia Antonio, il clan capeggiato da D’Ambrosio, ha letteralmente seminato il panico nell’area compresa tra il comune di Sant’Anastasia e Cercola, in particolare nell’anno 2017.
Le vittime dei ricatti estorsivi venivano condotte o convocate in un luogo ben preciso, individuato in via Lagno Maddalena a Sant’Anastasia, zona denominata in gergo “sopra al lagno”, in uno spiazzo ubicato nei pressi dell’abitazione di Massimiliano Baldassarre.
Le vittime venivano avvicinate da più soggetti che specificavano che la richiesta estorsiva veniva avanzata per conto del clan D’Ambrosio, legato ai De Luca Bossa. I soggetti taglieggiati spesso erano anche sottoposti a violenze fisiche affinché cedessero al ricatto estorsivo.
Svariati gli episodi estorsivi documentati dagli inquirenti che ricostruiscono con dovizia di particolari il modus operandi del clan D’Ambrosio. Verbali, intercettazioni, conversazioni, dichiarazioni dei collaboratori di giustizia dalle quali trapela la ferocia dell’organizzazione, oltre allo stato di terrore in cui vivevano le vittime.
Non solo commercianti e imprenditori, nel mirino del clan finì anche un’agenzia di pratiche automobilistiche di Sant’Anastasia, individuata per l’espletamento, in favore dei sodali, di pratiche automobilistiche o relative alla stipula di polizze assicurative, pagate solo con acconti, spesso non sufficienti a coprire neanche le spese. Al titolare venne così intimato di corrispondere una somma di denaro al clan, reo di essersi rifiutato di curare, nell’interesse degli associati, le procedure risarcitorie correlate a tre falsi sinistri stradali.
A una prostituta fu imposta una tangente periodica per proseguire la sua attività a Sant’Anastasia: in seguito al rifiuto di sottostare alle imposizioni del clan fu costretta a cedere il suo appartamento e ad allontanarsi dalla zona.
Indagini dalle quali emerge che nelle vesti di promotore, organizzatore e dirigente della cosca, Roberto D’Ambrosio ha pianificato strategie e obiettivi, distribuendo ruoli, compiti e stipendi agli affiliati, nonché mandante e /o materiale esecutore di agguati e pratiche estorsive, ma ha anche organizzatore e supervisore dell’attività delle piazze di spaccio, gestita vigilando e dirigendo l’operato dei pusher, non disdegnando di avvalersi della collaborazione di un minorenne. Un potere conquistato sottomettendo e/o allontanando chiunque esercitasse in autonomia attività criminali, o comunque illecite, come ad esempio la prostituzione o le truffe assicurative, ma anche mediante le estorsioni a tappeto e il controllo diretto o indiretto dei traffici di sostanze stupefacenti che si svolgevano nell’area da lui controllata; favorendo, in ambito commerciale, imprenditori collusi.
Una politica intransigente, così come testimonia un evento ben preciso: Roberto D’Ambrosio è l’ideatore e il mandante dell’agguato in cui a giugno del 2016 resta ferito Gaetano Esposito alias Galetano. Un agguato voluto per affermare l’egemonia geo-criminale del suo clan eliminando un soggetto già addentrato nei traffici illeciti e che operava per conto dei rivali del clan De Bernardo. Esposito si era rifiutato di sottostare o di cooperare con il clan capeggiato da D’Ambrosio, motivo per il quale fu raggiunto da 8 colpi d’arma da fuoco al fianco destro, alla coscia sinistra e al gluteo destro. Un agguato al quale riuscì a sopravvivere fortuitamente e che maturò in seguito alla minaccia insistita di versare nelle casse del clan D’Ambrosio la somme di 9mila euro, alla quale non si piegò neanche in seguito a un pestaggio. Successivamente all’agguato, mentre era in auto, Esposito fu raggiunto in strada dal commando e fu prima minacciato con una mazza da baseball, poi gli fu palesata l’intenzione di sottrargli l’automobile, alla luce dell’ennesimo diniego di cedere al ricatto estorsivo dei rivali.
Particolarmente raccapricciante il calvario subito dal proprietario di un autolavaggio di Cercola, prelevato dal luogo di lavoro e condotto in un punto Snai del vicino comune di Pollena Trocchia e portato al cospetto delle figure apicali dell’organizzazione che formalizzarono la richiesta estorsiva. Determinanti, nel ricostruire il dramma vissuto dal commerciante, le dichiarazioni rese da un testimone di giustizia con il quale la vittima si era confidato e che ha consentito ai carabinieri della tenenza di Cercola di documentare le minacce ricevute affinchè ritirasse la denuncia.
La vittima aveva ricevuto, sulla chat di WhatsApp, le foto di alcuni verbali relativi a provvedimenti giudiziari di arresto e fermo eseguiti nei confronti di D’Ambrosio e altri affiliati al clan che avevano partecipato materialmente alle richieste estorsive che aveva subito: Luca Concilio, Ferdinando Gerardo Russo, Eduardo Fiorentino Mammoliti, Bruno Solla e Arca Baldassarre.
Suo cognato fu avvicinato da uno sconosciuto che gli intimò di invitarlo a ritrattare le accuse oggetto della denuncia sporta e di non confermare le dichiarazioni nel corso della deposizione testimoniale che doveva rendere, in quanto persona offesa, nel corso del processo, prospettandogli, in caso contrario, gravi conseguenze per la sua incolumità e quella dei suoi
familiari. Minacce che ha subito anche in tribunale.
E’ soprattutto nel comune di Sant’Anastasia che il clan D’Ambrosio concentra l’attività estorsiva nell’anno 2017: a un commerciante di autoveicoli fu imposta una tangente di 2mila euro, poi ridotta a 1.500 euro; il titolare di una pizzeria costretto ad entrare in affari con il fornitore di prodotti caseari imposto dal clan, favorendo così un imprenditore colluso con il sodalizio e che si recava presso l’indicato esercizio di ristorazione nelle giornate di mercoledì e venerdì di ogni settimana. Un ricatto al quale il ristoratore cede dopo aver subito un pestaggio quando fu convocato nella zona “del lagno”. Anche il suo fornitore di fiducia andò incontro alla stessa sorte per aver continuato a fornirgli prodotti caseari, intimandogli così di depennare quel cliente dalla sua lista.
Nel mirino del clan finirono anche due ditte che operavano in altrettanti cantieri aperti a Pomigliano D ’Arco e impegnati nella realizzazione di opere di urbanizzazione fognarie ed idriche ai cui dipendenti fu indirizzato un monito esplicito: “Mi raccomando, dite queste parole all’impresa: che deve venire sopra al Lagno Capovilla e si viene a chiarire con noi. Non vi permettete di scendere a faticare se non viene prima a chiarirsi da noi”.
Minacce rilanciate nei giorni successivi: “Gliel’avete detto al Mastro vostro che si deve presentare? Già siamo venuti una volta, questa è la seconda volta che veniamo. Che aspettate che vi riempiamo di botte? “E ’ la seconda volta che vengo qua “Che vi credete che siamo scemi? Io vengo qua e vi sparo. Diteglielo all’impresa che si deve presentare sul Lagno “Che aspettate che vi spariamo addosso? Dovete dire all’impresa di venire sul Lagno e ora andatevene subito dal cantiere perché altrimenti vi spariamo addosso”; “Guardi pure scemo? Non hai capito che te ne devi andare dal cantiere?”.