“Il femminicidio è un omicidio di Stato perché lo Stato non ci tutela, perché non ci protegge. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere”: parole durissime quelle utilizzate da Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, la 22enne uccisa dall’ex fidanzato e che nei giorni scorsi hanno innescato un acceso dibattito politico, soprattutto perchè la giovane ha parlato di “cultura dello stupro” e di “patriarcato”.
Sull’onda dell’indignazione che ha scatenato l’omicidio di Giulia Cecchettin, la replica del governo è stata tempestiva: approvato all’unanimità con 157 sì il disegno di legge del governo contro la violenza alle donne. Il provvedimento, che ha già passato l’esame della Camera il 26 ottobre scorso, è così definitivo.
Si tratta di un pacchetto di misure che punta a rafforzare il ’Codice Rosso’ grazie al potenziamento di strumenti come l’ammonimento, il braccialetto elettronico, la distanza minima di avvicinamento e la loro applicazione ai cosiddetti ’reati spia’. Resta acceso il dibattito sull’introduzione nelle scuole dell’ora di educazione all’affettività e alla parità di genere, mentre tra le teenager spopola sui social network un messaggio malsano e distorto circa lo stereotipo maschile al quale ambire: “il malessere”. Un appellativo che di per sé introduce sentimenti ed azioni tutt’altro che genuine, proprio perchè sintetizza l’insieme di stati d’animo ed emozioni che quel modello maschile è in grado di trasmettere alla partner.
“Il malessere” è un giovane rozzo, ignorante, dagli atteggiamenti violenti e brutali, geloso, possessivo: un incubatore di caratteristiche dalle quali le ragazze dovrebbero fuggire a gambe levate e che, invece, sui social network trova un’inquietante consacrazione.
Uno stereotipo costituito da una serie di stereotipi: barba folta, “quello scooter”, “quell’automobile”, “quell’orologio”, “quelle scarpe”, “quella tuta”, “quegli abiti”. Un nullatenente che ostenta una vita lussuosa, “ancora meglio se pregiudicato”. Un identikit lontano anni luce dal “bello e dannato” personificato dalle star del cinema e che ha fatto sognare decine di generazioni, perchè “il malessere” non può essere uno studente universitario in camicia, ma tassativamente un balordo armato delle peggiori intenzioni. E non solo di quelle.
Soprattutto su TikTok spopolano i video che narrano le gesta di giovani maleducati, irrispettosi che adottano condotte tutt’altro che galanti nei confronti della partner. Una deriva pericolosa che vede giovani donne ostentare con orgoglio le performance del fidanzato geloso. Come se tagliare un top a suo avviso troppo corto per impedirgli di indossarlo o inviare messaggi pregni di insulti e minacce in replica ad una stories che ritrae la sua ragazza in discoteca con le amiche, sia qualcosa di cui una donna debba vantarsi. Una deriva preoccupante quella che erge la gelosia a metro valutativo della sincerità dell’amore, soprattutto se si considera che i social network hanno sostituito i vecchi libri di educazione civica e rappresentano lo strumento educativo/emulativo più utilizzato dalle giovani generazioni.
Sotto i nostri occhi sta crescendo una generazione di donne educate a recepire positivamente la violenza: una premessa in netta antitesi con le intenzioni manifestate dalle istituzioni all’indomani dell’ennesimo femminicidio.
L’aggravante, nel caso dei nativi digitali, va identificato nel fatto che non possiedono esperienze di vita vissuta in assenza di comunicazione virtuale e quindi rischiano di mistificare i due mondi, cosa che in parte già sta accadendo, tendendo a distaccarsi dalla realtà. Sono tantissimi i giovani che vivono letteralmente dentro i social network, finendo per simulare le esperienze più disparate servendosi di un account, a discapito della vita reale. Un contenitore di informazioni e stereotipi che rischia di generare dei “fenomeni” nel mondo virtuale che corrono il serio pericolo di rivelarsi “mostri” nel mondo reale. Basta pensare ai video-shock che dilagano sui social e che vedono giovani compiere gesta agghiaccianti, solo per catturare “like” e “views”. Non a caso gli stupri di gruppo avvenuti di recente e che hanno sconvolto l’opinione pubblica sono stati tutti ripresi con i telefoni cellulari. L’ostentazione del male diventa motivo di vanto ed orgoglio e dovrebbe imporre una riflessione ben più severa il fatto che a sponsorizzare il modello-malessere sono soprattutto le giovani donne, quindi le potenziali vittime di quei potenziali carnefici.
Una ragazza che cresce nel culto del “malessere”, percependo quello stereotipo come il prototipo maschile al quale ambire, difficilmente potrà riconoscere i segnali di pericolo, perchè la gelosia non è limitazione della libertà, ma espressione per antonomasia di un amore infinito, perchè un uomo che la tratta male e la fa soffrire è il raggiungimento di quel patema d’animo sbandierato sui social dalle coetanee come lo status al quale ambire, perchè una relazione normale non è un contenuto di tendenza, mentre la relazione tossica diventa un trend.
Anche se una giovane dovesse ribellarsi a questo stato di cose, non è detto che il suo sfogo possa essere accolto in maniera benevola dal gruppo dei pari. La negazione di quel prototipo maschile e/o la ribellione ad un modello che mira a soggiogare e assoggettare la donna, potrebbe tradursi nella derisione o nell’isolamento da parte del gruppo che potrebbe non essere ugualmente disposto a dissociarsi dalla consacrazione di quel cliché che non sembra essere riconosciuto come altamente nocivo, ma questo non suscita preoccupazione.