L’abitazione della “Pazzignana” Luisa De Stefano, nel rione De Gasperi di Ponticelli era il quartier generale dell’alleanza costituita dai vecchi clan dell’area orientale di Napoli. Un porto di mare abitualmente frequentato dalle figure più autorevoli dell’organizzazione che ignare di essere intercettate hanno contribuito a far luce sulle principali azioni delittuose compiute dal clan per consacrare la propria egemonia.
Le intercettazioni in casa De Stefano prendono il via nell’aprile del 2016, in seguito al sequestro di droga e alcuni manoscritti rinvenuti in casa della “pazzignana”: sono le prime prove dell’esistenza di un cartello tutt’altro che dedito soltanto all’attività di spaccio di droga, come era accaduto fino a quel momento, da quando i Sarno avevano autodistrutto il loro impero decidendo di collaborare con la giustizia. Il colpo più duro, scaturito da quel vortice di arresti e condanne, fu inflitto proprio alla famiglia/clan riconducibile alla De Stefano: suo marito Roberto Schisa viene condannato all’ergastolo in via definitiva per la “strage del bar Sayonara” in cui persero la vita quattro persone estranee alle dinamiche camorristiche. Sorte analoga per suo zio Luigi Piscopo, mentre suo fratello Giovanni finisce dietro le sbarre insieme agli altri affiliati che avevano praticato reiterate estorsioni, angherie e minacce nei riguardi di Carmine Sarno, fratello degli ex boss poi passati dalla parte dello Stato. In questo clima di devastazione e disfatta, Luisa De Stefano eredita il clan di famiglia e per circa un decennio si limita a controllare l’attività di spaccio di droga nella sua zona, consapevole di non disporre della forza camorristica necessaria per contrastare l’ascesa degli altri clan, in primis, i De Micco: cartello nascente che sotto la guida di un giovane e spregiudicato boss, riesce in pochissimo tempo a colmare il vuoto di potere generato sul fronte camorristico dalla dissoluzione del clan Sarno.
Proprio per questo motivo l’omicidio del boss del rione Sanità Raffaele Cepparulo coglie di sorpresa i soggetti addentrati nelle dinamiche malavitose della zona est di Napoli. Cepparulo, affiliato al clan Esposito-Genidoni, era finito nel mirino dei rivali del clan Vastarella in seguito alla cosiddetta “Strage delle fontanelle”, un agguato compiuto in un circolo ricreativo del centro storico di Napoli che costò la vita a svariati affiliati. Motivo per il quale decise di allontanarsi dalle “Case Nuove”, la zona di cui era originario e dove aveva già ricevuto la visita di sicari intenzionati a stanarlo e si trasferì a Ponticelli, forte dell’amicizia con Umberto De Luca Bossa. Ignaro del fatto che il clan del Lotto O di Ponticelli era entrato in affari con i Minichini, “le pazzignane” e i Rinaldi, Cepparulo intrecciò rapporti con i Mazzarella e i De Micco, due clan in rotta di collisione con il cartello nascente.
Fin dalle prime intercettazioni che ricostruiscono i dialoghi avvenuti in casa De Stefano, trapela la necessità di eliminare Raffaele Cepparulo, in quanto la sua presenza a Ponticelli è considerata pericolosa dalle “pazzignane”, consapevoli del rapporto che intercorre tra il boss del rione Sanità e Roberto Scala, affiliato al clan De Micco. Inoltre, forte era il timore che Cepparulo stesse pianificando un agguato nei confronti di Michele Minichini, perchè aveva iniziato a prendere informazioni sul suo conto.
Le intercettazioni documentano come l’organizzazione sia passata dalle intenzioni di uccidere Cepparulo alla pianificazione dell’agguato nei minimi dettagli, ricevendo appoggio, indicazioni e mezzi dal boss Ciro Rinaldi, il quale a sua volta aveva subito una “stesa” da Cepparulo che aveva sparato diversi colpi d’arma da fuoco contro la sua abitazione nel rione Villa di San Giovanni a Teduccio.
Il clan si era attivato per uccidere Cepparulo già il giorno prima, il 6 giugno del 2016, ma l’agguato fu mandato a monte da una serie di falle di natura organizzativa. Come da accordi, Anna De Luca Bossa, filatrice dell’agguato, aveva inviato un messaggio ai killer Michele Minichini e Antonio Rivieccio per indicare la presenza di Cepparulo nel circolo ricreativo del rione Lotto O di proprietà di Umberto De Luca Bossa. Il fallimento dell’agguato emerge proprio dai dialoghi tra gli affiliati che oltre ad esternare tutto il loro rammarico, manifestano la ferma intenzione di riprovarci per portare a compimento l’azione. Senza perdersi d’animo e traendo esperienza dai propri errori, si prepararono ad agire per il giorno successivo, ripercorrendo più volte i compiti assegnati a ciascun gregario in modo da essere in grado di risolvere qualsiasi problema potesse presentarsi: studiano il percorso, concordano gli orari, organizzano un sistema di comunicazioni telefoniche intrecciate, predispongono la fuga e il recupero delle armi.
Le intercettazioni consentono anche di ricostruire con dovizia di particolari l’agguato avvenuto il giorno seguente, il 7 giugno del 2016. Dal confronto tra Anna De Luca Bossa, testimone oculare dell’agguato, e Luisa De Stefano e Vincenza Maione gli inquirenti hanno potuto attribuire a ciascun affiliato partecipante all’agguato un ruolo preciso. Nella fattispecie, fin da subito emerge che Michele Minichini ha ucciso Cepparulo colpendolo più volte alla testa, mentre Ciro Colonna, 19enne estraneo alle dinamiche camorristiche, ha pagato con la vita l’inesperienza di Antonio Rivieccio che gli ha sparato individuandolo erroneamente come il guardaspalle di Cepparulo.
Dalle conversazioni avvenute nei giorni successivi in casa De Stefano trapela la soddisfazione dei partecipanti all’agguato per la morte dello scomodo rivale, ma anche il rammarico per aver ucciso un giovane innocente. Allo stesso modo i responsabili dell’omicidio Colonna-Cepparulo inscenarono una serie di depistaggi volti a sviare i sospetti che si stavano diffondendo negli ambienti malavitosi circa la loro responsabilità, impegnandosi a far ricadere la colpa su altri clan.