Non doveva morire Antonio Minichini, la sera del 29 gennaio del 2013. Quella sera, i sicari del clan De Micco entrarono in azione per uccidere Gennaro Castaldi, giovane contiguo al clan D’Amico, in guerra proprio con i De Micco per il controllo del territorio. Un camorrista ben addentrato, malgrado la sua giovane età, per questo Castaldi era finito nel mirino dei “Bodo”, questo il soprannome dei De Micco che in quel momento storico si contendono il controllo dei traffici illeciti, in primis la droga, con i “fraulella”, soprannome dei D’Amico.
Sullo sfondo il vuoto di potere generato dal declino dell’era dei Sarno, scaturito dal pentimento delle figure apicali del clan e che aveva scatenato un vero e proprio terremoto giudiziario. Un esercito di soldati e sodali raso al suolo, sulle cui macerie le due compagini mirano a rifondare un nuovo impero del male e per riuscirci sono disposti a tutto. Gli affiliati di entrambi i clan danno la caccia a un bersaglio da eliminare per “fare un punto”: questo il termine utilizzato, nell’ambito di una faida, per rimarcare l’esecuzione di un’azione eclatante, utile ad infliggere una sonora stangata ai rivali.
In preda a questa logica, i killer dei “Bodo” non ridimensionano i loro piani, quando giunti in via Arturo Toscanini, nel rione Conocal, il bunker dei rivali del clan “fraulella”, trovano Castaldi seduto sullo scooter con il suo amico Antonio. Il 21enne Gennaro Castaldi muore subito, il 19enne Antonio Minichini spirerà all’alba, dopo essere stato sottoposto ad un delicato intervento chirurgico. Il questore viete i funerali pubblici per il figlio di “Annarella ‘a secca” e “Cirillino”, seppure a suo carico risulti solo un fermo.
«La decisione non è stata presa sulla base della personalità di Antonio Minichini, – si legge nella nota diramata dal Questore di Napoli – ma del contesto sociale in cui era inserito. Il ragazzo era nipote di Teresa De Luca Bossa, una delle poche donne detenute in regime di 41 bis. Pur provando profondo dolore per una giovane vita spezzata così presto, ritengo che il divieto sia d’obbligo». E, così, tra numerose polemiche e dissensi, al giovane fu negata la possibilità di vedersi porgere l’ultimo saluto nella chiesa di San Francesco e Santa Chiara che si trova proprio a due passi dal quartier generale dei De Luca Bossa, nel rione “Lotto O”. I funerali del giovane si svolsero nel cimitero di Ponticelli e un folto gruppo di persone accompagnò con un lungo applauso il feretro bianco nel quale era riposto il corpo esanime di Minichini.
Di lì a poco, però, i familiari di Antonio Minichini sono stati costretti a spostare le spoglie del giovane al cimitero di San Giovanni a Teduccio, perchè la tomba del 19enne veniva continuamente dissacrata.
Sputi, urina, raid vandalici.
Un segnale esplicito che mirava a destabilizzare i Minichini-De Luca Bossa, lanciando un segnale di egemonia totale che mirava perfino a turbare la quiete dei morti. I rivali intendono controllare anche l’angolo più angusto del quartiere e ai reduci della cosca del Lotto O non resta da far altro che accondiscendere. Motivo per il quale, le reliquie del giovane Minichini venfono spostate nel cimitero di San Giovanni a Teduccio. Lo scorso ottobre, il loculo sottostante a quello del figlio di Anna De Luca Bossa è stato occupato dal feretro di Carmine D’Onofrio, figlio naturale di Giuseppe De Luca Bossa. Il giovane avrebbe pagato con la vita la partecipazione al raid indirizzato al boss Marco De Micco sette giorni prima del suo omicidio. Sarebbe stato lui a piazzare l’ordigno che esplose nel cortile dell’abitazione del boss, rischiando di uccidere i suoi figli. Un gesto che il figlio di Peppino De Luca Bossa avrebbe pagato con la vita, brutalmente assassinato sotto gli occhi attoniti della compagna incinta, in procinto di partorire.
Ora i resti di Antonio e Carmine, i due cugini, uccisi entrambi dai De Micco, seppelliti uno sull’altro, lontano da Ponticelli, il quartiere teatro dell’eterna faida tra i due clan. E forse non per una fortuita casualità.
Nel quartiere si narra che all’indomani dell’assassinio del 23enne Carmine D’Onofrio ai familiari sarebbe stata negata la possibilità di seppellire il feretro nel cimitero di via Argine a Ponticelli, vedendosi così costretti, ancora una volta, a dirottare a San Giovanni a Teduccio.
Un subdolo e macabro modus operandi che estende l’egemonia dei De Micco ben oltre i confini dei rioni contesi per il controllo del territorio e che crea una sovrapposizione di fatti e persone assai suggestiva e che induce i De Luca Bossa a piangere due giovani morti uccisi per mano dello stesso nemico, quell’acerrimo nemico che in tutti i modi cercano di osteggiare, senza mai riuscirci.
Il primo a provarci è stato Michele Minichini, ‘o tigre, che annunciò vendetta e rivalsa tatuandosi il volto del fratellastro Antonio sul petto, unitamente ad una frase in spagnolo assai esplicita: “arriverà il giorno della vendetta”.
E per agguantare quella vendetta ‘o tigre si è barcamenato tra le viscere dell’inferno, diventando il braccio armato dell’alleanza tra le famiglie d’onore di Napoli est, animata dal duplice intento di scalzare i Mazzarella da San Giovanni a Teduccio e i De Micco da Ponticelli. Per vendicare il fratellastro, ‘o tigre ha messo la firma su dozzine di crimini efferati, ma alla fine si ritrova condannato al carcere a vita, senza essere riuscito a perseguire quell’intento, raccolto in eredità da Christian Marfella, adesso. Il fratellastro di Tonino ‘o sicco, figlio del boss di Pianura Giuseppe Marfella e della donna-boss Teresa De Luca Bossa, ha diverse motivazioni di carattere personale per voler mettere all’angolo gli odiati De Micco.
In primis perchè, quando era poco più che un ragazzino, a differenza dei suoi fratelli dirottati nella periferia occidentale della città di Napoli, decise di calcare le orme del fratellastro Antonio De Luca Bossa. Un atto di fedeltà che ha annunciato con un tatuaggio: “Tonino ‘o sicco” inciso sul collo come il più prestigioso dei collier da esibire con orgoglio, perchè rivendica l’appartenenza ad una delle famiglie d’onore più temprate della periferia orientale di Napoli.
Vuole dimostrare di essere all’altezza della pesante fama camorristica costruita da Tonino ‘o sicco e che gli è valsa l’etichetta di “macellaio della camorra”, così debutta senza indugi sulla scena malavitosa, fiancheggiando i D’Amico, nell’ambito della faida proprio contro i De Micco. Ben presto finisce in carcere ed è tornato in libertà, dopo circa un decennio trascorso dietro le sbarre, lo scorso 27 giugno. Ed è proprio Marfella, dalla cella in cui è recluso, ad invitare alla calma gli affiliati al clan De Luca Bossa, all’indomani dell’omicidio di Carmine D’Onofrio.
Le giovani reclute della cosca del Lotto O, ignare di essere intercettate dalle forze dell’ordine, non fanno nulla per nascondere la forza egemone dei rivali del clan De Micco.
Hanno paura.
Comprensibilmente, hanno paura.
Un giovane cresciuto a pane e camorra come Christian Marfella sa che quel genere di paura va sedata, domata, placata, prima che esploda in una reazione spropositata che può tradursi in una caterva di guai per gli affari di famiglia.
Alessandro Ferlotti, legato ad Emmanuel De Luca Bossa, secondogenito di Tonino ‘o sicco, confessa alla sua fidanzata la paura di fare la stessa fine di Carmine. Dalle conversazioni tra i due fidanzati trapela che i De Luca Bossa, nei mesi successivi all’agguato costato la vita al figlio naturale di Peppino De Luca Bossa, se ne stanno rintanati nelle loro case, proprio perchè sopraffatti dalla paura di finire in pasto alla medesima logica di spari e morte.
A riprova di quanta fiducia ed aspettative ripongano le giovani reclute del clan in Christian Marfella, in quel momento storico, Ferlotti confida nella sua scarcerazione, indicandolo come l’uomo della provvidenza, l’unico capace di mettere le cose a posto per riportare i De Luca Bossa agli antichi splendori. Proprio Marfella, dal carcere nel quale era recluso, lo aveva invitato ad adottare un profilo basso. Un concetto rimarcato da Chicco, alias Emmanuel De Luca Bossa, che racconta a Ferlotti di un’incursione nel Lotto O del boss Marco De Micco e di Nanduccio Miobababbo, alias Ferdinando Viscovo, con l’intento di stanare ed uccidere proprio lui, Ferlotti. Non trovandolo, avrebbero indirizzato la loro ira e le loro attenzioni verso Martina Minichini, sorella di Antonio, alla quale avrebbero indirizzato frasi ingiuriose rivolte non solo a lei, ma anche al compagno Gino Austero attualmente detenuto. La scorreria armata si sarebbe poi conclusa sotto casa di Zaira De Luca Bossa, sorella di Anna ed Antonio, estranea alle dinamiche camorristiche, e di Umberto De Luca Bossa, primogenito di ‘o sicco attualmente detenuto.
Dalle conversazioni tra Ferlotti e la sua fidanzata emerge un altro dettaglio agghiacciante: il giovane chiede alla ragazza di accertarsi circa la veridicità di una notizia ovvero che gli affiliati al clan De Micco siano soliti dissacrare il luogo in cui è maturato l’agguato di Carmine D’Onofrio, sott’ all’arc’ in zona San Rocco, indirizzandogli degli sputi.