Il sentore che tra le reclute del clan De Micco di Ponticelli ci fosse qualcuno potesse decidere di passare dalla parte dello Stato, era un rumors che aleggiava nell’aria da tempo e che può definirsi l’ultimo stadio del ciclo di vita di un clan camorristico.
La storia di ogni organizzazione criminale, capace di affermare e consacrare la sua egemonia su un territorio, su un popolo, sugli altri clan, è scandita da diversi fasi ben precise: la nascita; l’affiliazione, agevolata dall’incremento degli introiti e dalla “fama” che il clan riesce a costruirsi; la faida con gli altri clan; il declino che inevitabilmente subentra in seguito ad un evento imprevisto che indebolisce sensibilmente il clan: la morte di un boss o di un cospicuo numero di reclute, oppure gli arresti. Il colpo di coda definitivo subentra quando gli affiliati considerati più deboli iniziano a vacillare, provati da tanti giorni di carcere e dalla prospettiva di trascorrere in quel modo gran parte degli anni che gli restano da vivere e che di giorno in giorno si fa sempre più concreta e difficile da gestire. Non sempre la consapevolezza che il clan provveda al sostentamento economico della famiglia dei detenuti per l’intera durata della carcerazione e la paura di mettere a repentaglio le vite dei propri cari rappresentano una condizione necessaria e sufficiente a garantire eterna fedeltà e servilismo incondizionato al “sistema”. L’idea di dover rinunciare alla libertà, gioca un ruolo considerevole nel determinare le sorti di un clan, se a ciò si aggiungono ruggini o vecchi rancori, riconducibili a contrasti maturati all’interno dell’organizzazione quando era ancora in auge, non è difficile capire come e perché un camorrista giunge a maturare la volontà di diventare un collaboratore di giustizia.
Seppure quello dei De Micco sia un clan che dispone di ingenti quantitativi di denaro, secondo alcuni collaboratori di giustizia, infatti, sarebbe una delle poche organizzazioni camorristiche napoletane in grado di corrispondere lo stipendio alle famiglie di tutti i detenuti, un biglietto da visita importante, dunque, in tempi di magra anche per gli interpreti della malavita, il timore che tra le fila dei “Bodo” potesse celarsi qualche “infame”, in grado di dirottare l’organizzazione verso la definitiva dissoluzione, negli ultimi tempi, stava diventando un’ipotesi sempre più acclarata.
Così doveva essere e così è stato.
Così è stato per tutti i grandi clan, così è stato anche per i “Bodo”.
«Sono detenuto per il reato di camorra e appartengo al clan De Micco. In un mio momento di debolezza mi avvicinai a Luigi De Micco e verso il 2015 decisi di mettermi al suo servizio: facevo l’autista. nel mentre riuscii a guadagnare la sua fiducia e per questo iniziò a parlare con me di omicidi e soprattutto mi prestai ad aiutare alla latitanza di Francesco De Bernardo e Flavio Salzano, che è morto».
Con queste parole Nunzio Daniele Montanino, ritenuto per sua stessa ammissione un uomo di fiducia del clan De Micco, ha ufficializzato la sua collaborazione con la giustizia.
Classe 1976, Nunzio Daniele Montanino, considerato “la faccia pulita” del clan De Micco, fu arrestato nel novembre del 2016, con l’accusa di aver favorito la latitanza di Francesco De Bernardo, gravemente indiziato di aver violato la normativa sulle sostanza stupefacenti con l’aggravante del metodo mafioso, nonché responsabile del reato di falso materiale e sostituzione di persona, in quanto trovato in possesso di una patente di guida, i cui dati anagrafici appartenevano ad altra persona. Fu proprio Montanino ad aiutare De Bernardo a nascondersi in un appartamento a Marigliano, comune dell’entroterra vesuviano, collegato a filo doppio con la malavita ponticellese.
Il nome di Montanino figura anche tra quello delle 23 persone ritenute contigue al clan De Micco, arrestate il 28 novembre 2017, accusate a vario titolo di associazione per delinquere di stampo mafioso, omicidio, estorsione e per i quali la Dda ha chiesto il processo immediato, mentre i 23 imputati, di tutta risposta, hanno chiesto la riduzione di pena.
Molto probabilmente, vedendo la sua posizione troppo compromessa dinanzi alla legge e provato dalla carcerazione, Montanino ha ceduto, rinnegando le regole d’onore della camorra per passare dalla parte dello Stato.
Montanino racconta le precauzioni acquisite dal presunto boss Luigi De Micco, subentrato al vertice del clan in seguito agli arresti dei fratelli Marco e Salvatore: «Dopo un tentato agguato a Luigi Carbone, fu informato via sms. Quella sera De Micco andò a dormire in albergo a Pompei per paura. Dove dormiva De Micco lo sapevamo solo io e Davide Principe. Dormiva in albergo utilizzando documenti falsi o si appoggiava in una casa a Casoria. L’indomani mattina venni contattato da De Micco il quale mi chiedeva di andarlo a prendere. Una volta sceso nella hall mi disse che saremmo dovuti andare a casa di Borriello e mi chiese se avessi avuto informazioni circa il tentato agguato di Carbone».
Un ruolo determinante nella cattura dei 23 affiliati avvenuta lo scorso novembre, lo ha ricoperto un altro collaboratore di giustizia, Rocco Capasso. Pensionato ed entrato a far parte della cosca dei tatuati nel 2015, quando Roberto Scala – condannato a 10 anni di reclusione nel luglio 2017 per associazione camorristica ed estorsioni ai danni dei commercianti di Ponticelli, avvenute tramite l’esercizio della violenza con sparatorie intimidatorie e l’utilizzo di bombe esplosive – tornato in libertà, dopo un periodo di detenzione, ha assunto la reggenza del clan. A partire da quel momento, Capasso ha smesso di mantenersi solo grazie alla pensione di invalidità che percepiva e ha iniziato a fare le estorsioni.
Nelle sue recenti deposizioni, Montanino svela diversi retroscena legati proprio alla figura di Capasso: Luigi De Micco avrebbe tentato ucciderlo. Capasso, infatti, lasciò sua moglie e strinse una relazione con una ragazza che gestiva una piazza di droga, rifiutandosi di passare gli alimenti alla famiglia, sperperava tutto il denaro che guadagnava insieme alla sua nuova fiamma. Una condotta intollerabile per Luigi De Micco. Secondo quanto riferito da Montanino: “da quando si era messo con questa ragazza, Capasso non era più presente negli affari del clan.”
In occasione del 18esimo compleanno della figlia di Luigi De Micco, tutti i gregari della cosca dei tatuati furono invitati alla festa. Capasso aveva intenzione di portare con sé la sua nuova compagna, ma il boss non gli diede il consenso e così Capasso non si presentò alla festa. Un affronto, una mancanza di rispetto, l’ennesima. De Micco preannunciò che avrebbero risolto il problema in seguito, ma proprio nei giorni in cui il braccio armato del clan stava pianificando l’agguato per ucciderlo, Capasso si consegnò alla Dda diventando un collaboratore di giustizia.
Montanino riferisce che quando giunse la notizia che la polizia aveva prelevato la moglie, i figli ed anche la compagna di Capasso, Luigi De Micco lo convocò con urgenza a casa di un altro affiliato, dove trovò Davide Principe ed Antonio De Martino, due componenti del gruppo di fuoco del clan De Micco. Antonio De Martino, in quel frangente, affermò che lui lo aveva sempre detto che Capasso “non era buono e che avrebbero dovuto ammazzarlo prima“, mentre Luigi De Micco si rammaricava, perché proprio per quella sera era già stato deciso che l’avrebbero ucciso. De Martino insisteva, ribadendo che avrebbero dovuto ammazzarlo prima, perché già sapevano che Capasso avrebbe collaborato con la giustizia.
E’ iniziato così il declino del clan De Micco: con un errore valutativo che si è tradotto in un appuntamento mancato con la morte e che ha dato il via all’ultimo stadio del ciclo vitale di un clan camorristico, il “valzer dei pentiti.”