“Viviamo in un quartiere difficile, dove giudicarci è facile, ma noi siamo fieri di dove siamo e delle leggi della strada che ci hanno aiutato a crescere. Noi non siamo figli di mamma e papà, siamo figli della strada ecco la realtà… ed è qua che siamo nati ed è qua che vogliamo morire”: questo il verso che impazza sui profili social dei “figli della strada” di uno dei quartieri in cui si fa sentire forte la presenza di minori violenti. Versi che terminano con una firma, ancora più esplicita: “Ponticelli“, il nome del loro quartiere tra due siringhe, l’emoticon utilizzata per sottolineare il senso d’appartenenza, il legame di sangue, tra i membri della “banda” e il territorio in cui sono cresciuti e che “li ha cresciuti.”
Partire da Ponticelli ed “andare a fare danni altrove” per i “figli della strada” vuol dire onorare il quartiere, accrescerne il prestigio e la rispettabilità, marcando altri territori, lasciando quella firma “di sangue” quale segno del loro temibile passaggio.
La scuola la frequentano poco e male, così come confermano i continui errori grammaticali sfoggiati con disinvoltura sui social e se qualcuno glieli fa notare, con sfrontatezza ed irriverenza, precisano che “la loro scuola è la strada”.
“La vita di strada” è la chiave di tutto: scuola e palestra, laboratorio e teatro, vanto e fregio di ragazzi cresciuti nel segno e nel rispetto di regole ben precise. E’ così che diventano malavitosi anche i figli di famiglie oneste, perchè per strada, nelle terre in cui è forte l’egemonia della camorra, della povertà, del degrado e del disagio sociale, ci finiscono tanti ragazzi e per varie ragioni.
La povertà e il degrado che imperversano nelle terre di camorra rappresentano una delle ragioni più concrete che porta il modello malavitoso a guadagnare punti agli occhi dei “figli della strada”.
Fedeltà verso “i fratelli fidati” – o meglio “e frat’ fidat'”- e la famiglia, dove per famiglia s’intende quello che nell’immaginario collettivo viene definito “baby gang”, poi ci sono l’onore – che nel gergo giovanile viene definito “la faccia” – da difendere con le unghie e con i denti e l’omertà, da imporre e rispettare sempre e comunque, a qualunque costo: queste le regole d’oro alle quali si ispirano “i figli della strada”, non a caso, le stesse impartite da mamma-camorra.
I figli di personaggi contigui alla malavita, insieme ai primi passi e ai primi vagiti, imparano a vivere di espedienti, sotterfugi e reati, puntando il dito contro tutto quello che nell’immaginario collettivo è sinonimo di legalità. Quei bambini sanno che devono essere sempre pronti ad avvisare “i grandi” quando intravedono una pattuglia e di loro “i grandi” si servono in tanti modi, soprattutto durante i blitz, quando la droga e le pistole non di rado vengono nascoste negli zainetti della scuola, tra libri e pastelli.
Abbandonano i banchi di scuola già dai primi anni: i dati dicono che i figli di genitori “a rischio”, fin dalle scuole elementari, nella migliore delle ipotesi, collezionano un numero importante di assenze. In molti casi, non terminano nemmeno le scuole medie. Tanto alle loro porte le assistenti sociali non bussano, per loro stessa e clamorosa ammissione: perchè temono il confronto/scontro con “quei genitori”.
E’ così che ai “figli della strada” viene negata la possibilità di conoscere “l’altra faccia del mondo”, la vera bellezza della vita e le mille altre opportunità che potrebbero disegnare un futuro diverso nei loro giorni, tutti uguali, tutti grigi. Grigi come i palazzi e il colore del fumo che, un tiro dopo l’altro, appanna la mente e incancrenisce il libero arbitrio: perchè è così che li vuole “la strada”.
Assuefatti, conniventi, poco lucidi.
I figli della strada crescono come alberi con i rami inariditi, perchè le loro radici non vengono innaffiate con i valori etici e morali sui quali si fonda la società civile, ma storpiati con le brutture di quel rocambolesco rovesciamento della medaglia dove “la strada” trasforma il male in bene e viceversa. In questo vicolo cieco, non è raro che ci finiscano anche ragazzini con una famiglia sana alle spalle, soprattutto in un momento storico come questo, dove non è scontato che due stipendi possano garantire una vita serena a un nucleo familiare. I genitori si fanno in quattro per non far mancare nulla ai figli e probabilmente si rendono conto troppo tardi che l’unica cosa di cui avevano bisogno era non perderli di vista per trasmettergli dei valori sani, imporgli delle regole sane.
Il benessere, la vita agiata, assicurati dallo spaccio di droga, dalle rapine e dai furti, li fa sentire dei “giganti” che sanno prendere a morsi la vita, a discapito degli “stupidi figli di papà” ai quali le scarpe griffate e lo smartphone più in voga viene garantito dalla solida posizione sociale dei genitori. Derubarli, picchiarli, terrorizzarli, per rivendicare la loro forza o semplicemente per il gusto di farlo, vuol dire agire nel rispetto della più antica delle “leggi della strada”, quella che vuole che a prevalere sia il più forte e che il povero rubi al ricco per “fare il mondo più onesto”, proprio come spiega O’ Track in una scena di “Gomorra”, dopo aver rubato il rolex ad un “figlio di buona famiglia”.
Già, Gomorra. Sulla scia delle suggestioni che la serie prodotta da Sky ha consegnato ai “figli della strada”, il gergo non verbale di quei ragazzi ha acquisito “la scesa”: una vera e propria processione di “bande” di ragazzini in sella agli scooter, lungo le strade del rione o della zona che intendono marcare come “loro”, rivendicando un senso di appartenenza sfrontato, che “deve far paura”. Ragazzini che a volto scoperto, in pieno giorno, alla luce del sole, giocano a fare “i guappi”, nel rispetto di una moda, per servire un’ideale, per sentirsi parte di qualcosa di importante, come solo “il gruppo che comanda e che semina il panico in mezzo alla strada” sa esserlo. Figli di una realtà distorta, di una mentalità incapace di trovare una logica e un perchè nel mondo reale e nella società civile ed è per questo che tutte le volte che quei due mondi entrano in contatto, il risultato finale può essere soltanto uno: violenza cieca, devastazione, morte.
Poi ci sono le pistole esibite con orgoglio sui social, seppure a maneggiarle siano bambini piccolissimi: immagini crude e violente che passano inosservate, seppure visionate, cliccate e approvate con un “Like” da centinaia di utenti. Queste immagini rischiano pericolosamente di farci “abituare al fenomeno“, rischiando di indurci a smettere di percepirlo come tale, portandoci ad accettare e concepire come “normale” questo continuo dilagare di fotogrammi che mostrano bambini, ragazzini, giovani vite intente a professare il linguaggio dell’odio e a divulgare il “verbo della strada“.