“Non hanno condannato un criminale, ma un simbolo”: questo il commento a caldo di chi Gennaro De Tommaso, più comunemente noto come Genny ‘a carogna, lo ha conosciuto e osannato, come un Dio in terra.
“La sua assenza sugli spalti si sente, era uno di quelli che metteva ordine. Sapeva farsi rispettare e imporre rispetto tra i gruppi delle curve”. A raccontare Genny ‘a carogna, nel giorno in cui l’ultrà del Napoli è stato condannato a dieci anni di carcere per un traffico di marijuana dall’Olanda, è uno di quei ragazzi cresciuti sulle gradinate del San Paolo, guardando a De Tommaso come un capo, un mito, un leader da seguire e dal quale lasciarsi ispirare.
I fatti contestati all’ultrà che ha conquistato le copertine dei giornali di tutto il mondo, dopo i fatti di Roma, risalgono al 2010, ben quattro anni prima che De Tommaso venisse ripreso dalle telecamere della Rai, in un clima alquanto concitato, mentre chiedeva delucidazioni in merito allo stato di salute di Ciro Esposito, il tifoso vittima di un agguato all’esterno dello stesso stadio Olimpico, poche ore prima di quella partita, valida per la designazione della Coppa Italia, tra Napoli e Fiorentina.
Ragion per cui, De Tommaso da oltre un mese è agli arresti domiciliari in via cautelare. Per lui l’accusa aveva chiesto una condanna a diciotto anni di reclusione. Nel processo, che si è celebrato con rito abbreviato, erano imputati anche alcuni familiari di De Tommaso: i due zii Giuseppe e Gaetano sono stati condannati a 15 anni, il cugino Rosario a dieci anni di reclusione. I tatuaggi, la mimica e le fattezze “da cattivo”, la t-shirt nera con la scritta in giallo “Speziale libero” che gli era già valsa il daspo, i supporters azzurri non hanno dubbi: “Genny è stato condannato per quella maglietta, per quella frase.”
Una convinzione tanto forte quanto ferma, i “fedelissimi” di De Tommaso parlano di “complotto di Stato”: “Siamo una nazione che s’indigna per una frase su una maglietta perché aggancia due luoghi comuni – spiega un ultrà, storico frequentatore della curva A – l’ultrà come una figura cattiva e, in quanto tale, facilmente associabile a comportamenti condannabili e nocivi per la società e la condannabile avversione verso le forze di polizia, visti da noi come “servi dello Stato”. In realtà, quella maglia era solo un atto di solidarietà all’uomo e ultrà Speziale. Era un messaggio da leggere in chiave positiva, non negativa. Non si è mai visto che a un tifoso venisse dato il daspo per una maglietta. Se l’indignazione, davanti a quel provvedimento, fosse stata collettiva, perché andava a ledere la libertà d’espressione di un individuo, forse Genny si sarebbe “salvato”. Invece, siamo un popolo ancora troppo legato ai pregiudizi: giudichiamo una persona per come appare, per i tatuaggi, il soprannome e la maglia che indossa e non per com’è realmente.”
Ma De Tommaso è stato condannato per tutt’altra ragione, in seguito a un’indagine e a un processo che hanno accertato il suo coinvolgimento nell’ambito di un traffico internazionale di stupefacenti. L’accusa aveva chiesto 18 anni, ne sconterà 10: una sentenza che non legittima la tesi dei “follower” di Genny: “ce lo ricordiamo bene quel periodo, era nell’aria “la mazzata” da parte dello Stato. Ne siamo tutti convinti che se non fosse successo quello che è successo a Roma, l’inchiesta che ha portato alla sua condanna oggi, non sarebbe mai stata aperta. A Napoli ci sono centinaia, ma che dico, migliaia di famiglie che mangiano con il fumo – spacciando marijuana – e se le volessero arrestare tutte, interi quartieri verrebbero svuotati. Non è una giustificazione, ma quello che ha subito Genny fa rabbia, ci hanno privato di un unto di riferimento non solo storico, ma fondamentale. Se lui fosse stato tra noi, quella vergognosa rissa avvenuta durante lo scorso campionato, non si sarebbe mai verificata. La verità è che tutta l’Italia lo ha visto: le figure come quella di Genny, all’interno della curva di uno stadio di calcio, hanno più potere dello Stato. E questo allo Stato ha fatto paura.”