Enrico Colonna, 53 anni, camionista di professione, marito di Adelaide e padre di Mary e Ciro.
Un vita trascorsa a percorrere l’Italia in lungo e in largo e, talvolta, anche l’Europa, per assicurare alla sua famiglia quanto necessario per condurre un’esistenza dignitosa, per non fargli mancare niente. In giro dal lunedì al venerdì, per poi godersi nel weekend quella famiglia che per la maggior parte del tempo è costretto a vivere a distanza.
Tutte le sere, quando rientrava a casa, Enrico lasciava in dono ai suoi bambini un giocattolo che, al loro risveglio, fungeva da traccia concreta e indelebile del passaggio di quel padre, nuovamente ripartito all’alba per portare al termine un altro viaggio: una Barbie per Mary, un camion per Ciro. Anche così, attraverso gesti semplici e ricchi d’amore, i suoi figli, sono cresciuti con la consapevolezza che Enrico era un padre tutt’altro che assente e distante.
Lo scorso lunedì, Enrico è tornato a rimettersi in viaggio, dopo due settimane. Anche quel martedì pomeriggio dello scorso 7 giugno, Enrico era lontano da Napoli per lavoro. È tornato nel cuore della notte, alle 4, e ad accoglierlo ha trovato la consapevolezza che tra le mura di quella casa nel Lotto O di Ponticelli, dove i suoi figli sono nati e cresciuti, niente sarà più come prima.
Un uomo costretto a confrontarsi con un dolore difficile da gestire e con una realtà che disegna delle trame incomprensibili, Enrico sente un gran bisogno di condividere i ricordi che raccontano di quel figlio che tanto ama ed amerà per sempre: “Ciro era un ragazzo educato, era un figlio buono che non mi ha mai dato dispiaceri.
Tra poco partirò, andrò a Torino e avrò modo di raccontare ai miei amici e colleghi cosa è successo e chi era mio figlio, anche se molti di loro lo hanno conosciuto Ciro, perché ogni tanto faceva qualche viaggio insieme a me, ma gli ho sempre detto che non doveva fare questo lavoro, perché è troppo sacrificato. Si lavora di notte, si è sempre lontano da casa e dalla famiglia, per lui mi auguravo una vita diversa rispetto a quella che ho fatto io. Gli ho sempre detto di andare a scuola e imparare un mestiere per non fare la mia fine, anche se ho sempre lavorato per non fargli mancare niente.
Con i risparmi abbiamo comprato una roulotte, andavamo in vacanza in un campeggio a Paestum e tra poche settimane, come ogni anno, Ciro sarebbe andato lì insieme a sua madre. Quando finiva la scuola li portavo al mare e li raggiungevo nel fine settimana. Portavamo al mare Ciro e sua sorella per 3-4 mesi proprio per tenerli lontani da questo contesto, infatti, i nostri amici sono quasi tutte persone che abbiamo conosciuto in vacanza, qui non conosco molte persone.
Sono quasi sempre fuori Napoli per lavoro e quando sono a casa, preferisco stare con la mia famiglia e riposare, non vado in giro per il rione.”
Cosa vuole dire a chi nel fatto che Ciro si trovasse in quel circolo ricreativo, vede la prova che fosse finito in un “brutto giro”?
“Non sono mai andato personalmente in quel circoletto, però mi rendo conto che per i ragazzi come mio figlio era effettivamente l’unico punto di ritrovo. Ciro non aveva alternative. Ma in questi giorni in particolare, abbiamo avuto modo di conoscere ancora meglio i suoi amici e posso assicurarvi che sono tutti bravissimi ragazzi. Qualche volta si spostavano nei paesi limitrofi, come Portici e San Giorgio a Cremano, ma anche uno spostamento di pochi chilometri, se dipendi dai mezzi di trasporto pubblici, può diventare problematico.
La mia parte penso di averla fatta: sono stato un padre presente e sempre disponibile ad accompagnarlo ed andare a riprenderlo, soprattutto quando usciva di sera. Il sabato sera, quando decideva di andare a ballare con gli amici gli ho sempre detto di chiamarmi anche nel cuore della notte, se si trovava in difficoltà e non sapeva come tornare. Ma sapete com’è, a 18-19 anni, per i ragazzi farsi andare a prendere dal padre è una “brutta figura”. Una battaglia che ho vinto, però, è stata quella di convincerlo a non andare più allo stadio. Quando tornava a casa, mi chiedeva: “papà, chi ha segnato?” e io rimanevo perplesso, non ci voleva molto a capire che se non riusciva a vedere nemmeno i gol, quando andava allo stadio si ritrovava in mezzo al casino. Allora ho fatto l’abbonamento alla pay tv, la domenica ci mettevamo seduti sul divano, con tanto di bibita e patatine e guardavamo la partita insieme, rilassati e senza preoccupazioni.
In quella circostanza, fiutando un potenziale pericolo, mi sono sentito in dovere di allontanarlo da quella situazione, ma in questo caso non era prevedibile né pensabile che potesse succedere una cosa simile. Io, quel martedì di due settimane fa, come accade spesso, ero fuori per lavoro, la madre di certo non poteva vietargli di uscire di casa. Non avrebbe avuto neanche motivo di farlo, perché il Lotto O non è più un presidio della camorra come tanti anni fa, adesso si è molto ripulito, un agguato come quello che ci ha strappato mio figlio non accade tutti i giorni, anzi, è arrivato come un fulmine a ciel sereno.”
Cosa sente di dire ai ragazzi dell’età di suo figlio che si stanno avvicinando alla criminalità organizzata?
“Non si devono neanche avvicinare, devono cambiare direttamente strada. Vedendo i soldi facili perdi di vista i pericoli. Meglio crearsi una cerchia di amicizia altrove, lontano dalle piazze di spaccio e da chi delinque, tra i ragazzi normali, proprio come Ciro. Rischi di trovarti per caso in una strada senza via d’uscita. I giovani che si avvicinano alle attività dei clan pensano che i soldi si fanno con facilità vendendo droga o ammazzando un uomo per poche centinaia di euro, non hanno capito che ci vuole un attimo a morire.”
Come vi piacerebbe che Ciro venisse concretamente ricordato?
“Mi piacerebbe che gli dedicassero il campo di calcio vicino alla chiesa di San Francesco e Santa Chiara, qui, nel Lotto O o che da qualche parte venisse affissa una targa in sua memoria. Una strada no, mi sembra troppo, mio figlio era una “persona normale”. Mi basterebbe anche un piccolo gesto che mi dia la certezza che il nome di mio figlio non verrà dimenticato.”