“Un pensiero va a te, Ciro ho sentito di salutarti oggi perché anche non conoscendoti ho percepito che persona eri, Vita mia ti amo tanto te lo giuro. Riposate in pace angeli R & C”: a scrivere questo post su facebook è la compagna di Raffaele Cepparulo, boss del clan dei Barbatos che per sottrarsi al pericolo conclamato di un agguato, dal Rione Sanità aveva trovato rifugio nel Lotto 0 di Ponticelli.
Una mossa “strategica” che è costata la vita a un ragazzo innocente e del tutto estraneo alle logiche criminali, quelle che, invece, Raffaele aveva sposato e abbracciato con fierezza e cognizione di causa.
Portava tatuati addosso e li esibiva con vanto ed orgoglio i nomi delle persone cadute sotto “le botte” che aveva sparato lui: le sue vittime, affiliati ai clan rivali che per una ragione o l’altra dovevano essere fatti fuori, secondo le regole di quel credo che hanno portato lo stesso Raffaele a perdere la vita in un agguato.
Cepparulo era riuscito a mettersi in salvo qualche tempo prima, sventando un agguato a lui rivolto barricandosi in un commissariato di polizia, un paradosso grande per uno che dietro la schiena si era fatto incidere la sigla “A.C.A.B” sinonimo della più alacre e rancorosa forma di avversione verso tutte le forme possibili e immaginabili di uomini in divisa.
“Ultimo”, questo il soprannome di Cepparulo, padre di un bambino di pochi mesi, sapeva bene di avere le ore contate e quella compagna che da quel giorno incessantemente pubblica foto, canzoni, video, status, pensieri, ricordi struggenti e quant’altro, sembra inscenare un copione che in qualche modo era già stato scritto e che attendeva solo “l’ufficialità” per essere condiviso con il popolo del web.
La spettacolarizzazione del dolore che genera migliaia di follower e che sa ergerti a “star del web”, una realtà distorta che riesce perfino ad attirare consensi e commozione.
La camorra nell’era del 2.0 è soprattutto questo.
Immedesima la loro storia in quella dei protagonisti del celebre film “Ghost”, dimenticando che in quel caso, il protagonista, impiegato di banca di professione, muore ucciso mentre rincasava con la compagna all’uscita dal teatro, durante la rapina di un malvivente che doveva rubargli il portafoglio.
È agghiacciante pensare che la mente umana possa giungere a percepire dei fatti e delle realtà in maniera così fortemente travisata, solo perché vivono nel segno di regole ed ideologie dettate dalla criminalità e dalla violenza.
I social network, in tale ottica, confermano di poter diventare un’arma capace di generare guai di una portata colossale tra le mani di chi sa utilizzare quel canale di comunicazione per “pompare” un messaggio distorto che non meriterebbe “like” e cuoricini, ma sdegno e indifferenza.
Questa ragazza, la famiglia Cepparulo, dovrebbero parlare di Ciro solo per chiedere “scusa” alla famiglia Colonna e a coloro che ne stanno piangendo la morte.
Se non dispongono della decenza e del buon senso necessari per rapportarsi in maniera appropriata alla morte di un ragazzo perbene, allora facciano silenzio. A imporlo è il senso del RISPETTO al quale si ispirano le persone oneste e pulite, non quello imposto dal codice d’onore della camorra.
E sia chiaro: uno che camminava “con il ferro in tasca” e lo usava per uccidere, non può definirsi “un angelo”.
Non merita l’aureola chi ha scelto di voler morire con “una botta in testa”.
A maggior ragione, se ha trascinato con sé una vita che meritava di “morire di noia” per infiniti altri pomeriggi fino a vedere i suoi capelli diventare bianchi, perché quel contesto non era in grado di offrirgli niente, in termini di attrattive e svago. E non solo.