Sono tantissimi i messaggi che mi stanno giungendo dalle più disparate città d’Italia e perfino d’Europa, da quando è stata resa nota l’aggressione da me subita nel parco Merola di Ponticelli.
Solidarietà, supporto, indignazione, stima, affetto: questo è quanto traspare dalle parole della gente che vuole e sa ancora indignarsi al cospetto della violenza.
Il messaggio che ho deciso di rendere pubblico, però, racconta qualcosa di diverso, consegna un’emozione forte e sincera che merita di essere condivisa:
“Cara Luciana,
Da quando ho saputo quello che ti è successo vivo male. Sono triste, arrabbiato e mi vergogno, perché sono il figlio di un camorrista.
Praticamente, se non ci fossero le foto a presentarmelo, non saprei neanche che faccia abbia mio padre. È in carcere da quando ho 2 anni. Adesso ne ho 22 e da quando ho imparato a pensare con la mia testa, spero che questa condanna non abbia mai fine.
Non gli ho mai scritto una lettera, ma ho sentito il bisogno di dire a te le parole che non ho mai detto a lui.
Le persone come te sono una speranza per quelli come me, io non voglio pagare per i suoi errori, ma l’etichetta di “camorrista” pesa forte sulle mie spalle, anche se sono uno studente universitario iscritto alla facoltà di giurisprudenza e mi mantengo lavorando in un pub di notte e in un autolavaggio di giorno.
“I figli della camorra” hanno bisogno di sbattere la testa contro le persone come te, con i tuoi valori e i tuoi principi, per capire che l’alternativa alle armi e alla violenza esiste ed è quella che tu stavi tracciando nel futuro dei bambini del parco Merola di Ponticelli.
Mia madre avrebbe pagato oro per avere accanto a sé una persona come te quando mi ha cresciuto, da sola e tra mille avversità.
Da quando ho saputo quello che ti è successo sto male, perché noi napoletani onesti, tutti insieme, avremmo dovuto difenderti, non avremmo mai dovuto permettere alla violenza di frenare sul tuo impegno sociale. In un momento brutto e difficile come quello che stiamo attraversando dal centro storico alle periferie perché si spara all’impazzata, c’è disperatamente bisogno di persone come te.
Tu sei la speranza del bambino che sono stato, cresciuto senza un padre e desideroso di continuare a vivere senza di lui, che questa catena si spezzi e che i bambini di oggi diventino genitori domani, consapevoli di cosa voglia dire “essere padre” e “fare il padre”.
Quelli che ti hanno aggredito sono fatti della stessa pasta di mio padre e non meritano di essere definiti genitori, c’è solo da augurarsi che anche gli occhi dei loro figli sappiano vedere quello che vedo io, quello che vede la gente onesta, quella che pensando a te può solo dirti: “Grazie!”.
Io aggiungo anche “Scusa” a nome di quella parte di sangue marcio che scorre anche nelle mie vene, purtroppo.”