La storia di Osama, dei suoi figli, il piccolo Zeid e il 19enne Mohmmad, narra, racchiude e sintetizza numerose e frammiste emozioni che ben delineano il percorso che scalfisce le vite di quelle carovane umane che con gli occhi affaticati e speranzosi e le gambe flebili, si apprestano a conquistare un brandello di salvezza, abbandonando la loro terra.
Li chiamano migranti, rifugiati, stranieri e in mille altri modi, dimenticando che sono uomini, principalmente. Uomini disperati e legittimati ad assecondare l’istinto di sopravvivenza che li induce a fuggire per mettersi in salvo.
La storia di Osama e dei suoi figli ha fatto il giro del mondo, per effetto delle immagini che hanno immortalato i calci negli stinchi che una giornalista gli ha inferto per ostruirne il cammino verso la salvezza.
Eppure, nonostante tutto e a dispetto di tutto e tutti, Osama e i suoi figli ce l’hanno fatta e il selfie postato sul web sancisce quella speranzosa e meritata conquista.
Alla fine, hanno vinto loro: contro le violenze dell’Isis, il sangue nelle strade della Siria, gli interminabili viaggi della speranza, il lavoro saltuario ed incerto in Turchia ed anche contro quei calci, emblema della più becera e riprovevole firma di discriminante intolleranza.
Osama e i suoi figli sono in Germania, sani e salvi.
Osama, allenatore di calcio scappato dalla Siria dopo essere stato arrestato dalle milizie dell’Isis era riuscito, passando per la Turchia, a raggiungere le zone di confine: lì è stato “sgambettato” dall’ormai nota giornalista Petra Laszlo che, anche ieri, è tornata a chiedere scusa per quel terribile gesto.
Un gesto che sbiadisce al cospetto dell’urlo di speranza che trapela in tutta la sua commovente sincerità, dallo scatto che immortala la felicità di Osama e dei suoi figli che, però, non deve consentire di dimenticare alla coscienza sociale verso quali brutture è capace di convergere l’animo umano.