In una delle celle del carcere di Poggioreale, alle 02.30 circa dello scorso 5 maggio, un uomo di 51 anni, G.I., originario di Afragola, ha compiuto il suo volontario ed estremo passo verso la morte. Secondo alcune dichiarazioni della Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria), il detenuto, che scontava una pena di 4 anni per rapina, sarebbe stato protagonista di diversi episodi di autolesionismo.
Spinto forse dall’irrefrenabile sete di libertà, l’uomo avrebbe cercato nella morte l’appagamento al suo desiderio; la corda di un accappatoio sarebbe così parsa un’improbabile arma con cui ripudiare una volta per tutte la propria esistenza. Il detenuto si sarebbe impiccato nel bagno della sua cella, avvolto dall’immobile silenzio della notte. Vani i soccorsi dei compagni di cella e della polizia penitenziaria, intervenuti tempestivamente.
La vicenda ha da subito alimentato le proteste di quanti, ogni giorno, si trovano immersi nella triste realtà delle carceri. ”Il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere.”
A parlare Donato Capece, segretario del Sindacato autonomo polizia penitenziaria, il quale sottolinea l’urgenza di una soluzione alla difficile situazione presente, a tal proposito, nel carcere di Poggioreale. ”Negli ultimi vent’anni anni, dal 1992 al 2012, abbiamo salvato la vita ad oltre 17.000 detenuti che hanno tentato il suicidio ed ai quasi 119mila che hanno posto in essere atti di autolesionismo, molti deturpandosi anche violentemente il proprio corpo. Numeri su numeri che raccontano un’emergenza purtroppo ancora sottovalutata, anche dall’Amministrazione penitenziaria che pensa alla vigilanza dinamica come unica soluzione all’invivibilità della vita nelle celle senza però far lavorare i detenuti o impiegarli in attività socialmente utili. – continua Capece, che tuttavia riconosce, nella cupa atmosfera che pervade le celle delle prigioni, la pallida umanità – che ogni giorno contraddistingue l’operato delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria con tutti i detenuti per garantire una carcerazione umana ed attenta pur in presenza ormai da anni di oggettive difficoltà operative come il sovraffollamento, le gravi carenze di organico di poliziotti, le strutture spesso inadeguate. Siamo attenti e sensibili, noi poliziotti penitenziari, alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso.”
Un episodio che getta luce sulla dura realtà della prigione, come mezzo di ”rieducazione” alla vita, che sembra offrire, come unica via di libertà, la morte.