Dall’indomani della rivoluzione che ha portato alla destituzione di Gheddafi, la nuova Libia non ha trovato ancora stabilità. A partire dallo scorso giugno abbiamo assistito a un’escalation di violenza armata che nelle ultime settimane sembra aver raggiunto il suo apice.
Le forze che si contendono il paese hanno ormai saturato lo scenario. Si combatte in Tripolitania, nella zona ovest, e soprattutto in Cirenaica, nella parte orientale del paese.
Il contesto è complesso e vede fronteggiarsi due grandi coalizioni, entrambe eterogenee. Da un lato le milizie di Fajr Libia (Alba della Libia), un gruppo composito che difende i principi della Rivoluzione del 17 febbario 2011, dall’altro l’autoproclamatosi Esercito Nazionale Libico comandato dall’ex generale più che settantenne Kalifa Haftar, che sotto il nome di Karama (Dignità) raccoglie i gruppi controrivoluzionari e restauratori del vecchio status quo. I primi temono il riaffiorare di una dittatura militare e repressiva, i secondi sostengono di combattere il terrorismo islamico.
A complicare il quadro, la presenza di due governi con rispettivi parlamenti e primi ministri, uno a est nella città di Tobruq e l’altro a ovest, a Tripoli.
Il primo era stato eletto alla fine dello scorso giugno, dopo contestate elezioni che videro solo il 10% degli aventi diritto recarsi alle urne. Le sue scelte politiche sono state ampiamente rifiutate da gran parte della popolazione: per per aver appoggiato la campagna del generale Haftar, per aver lasciato la sua sede a Tripoli stanziandosi a Tobruq (una città sotto il comando dei lealisti di Gheddafi), per aver stretto legami con Arabia Saudita, Egitto e Emirati Arabi Uniti e per aver permesso i bombardamenti sauditi che hanno colpito Tripoli ad agosto, durante la battaglia per il controllo dell’aeroporto internazionale della capitale. “Un governo che utilizza caccia stranieri per uccidere una parte della popolazione che dovrebbe rappresentare e proteggere è inaccettabile” è stata la lamentela più frequente di copiosa parte della cittadinanza.
Mentre l’aeroporto di Tripoli veniva seriamente danneggiato e lo spazio aereo veniva chiuso, i parlamentari dissidenti hanno proclamato un nuovo Congresso Nazionale a Tripoli, spalleggiato dalle milizie di Fajr Libia capeggiate dai ribelli di Misurata.
L’impasse politica, e le sue violente ripercussioni sociali e belliche, sarebbe stata risolta dalla sentenza della Corte Suprema libica che a novembre ha sancito l’incostituzionalità del governo di Tobruq e ha annullato le leggi da esso promulgate.
Sarebbe, perché nonostante tale decisione ufficiale nulla è cambiato: ancora oggi il primo ministro Al Thinni continua a godere di riconoscimento internazionale e di alleanze preziose.
Invece, l’altro governo, presieduto da Al Hassi, gode dell’appoggio di Turchia e Qatar.
L’ultimo mese ha registrato nuovi sanguinosi scontri tra le due fazioni per il controllo degli impianti petroliferi di Es Sidra e Ras Lanuf, situati nel golfo petrolifero tra le città di Sirte e Bengasi.
I combattenti dell’Alba li hanno attaccati per toglierne il controllo a milizie alleate di Haftar che se ne erano impossessate con le armi, forti della debolezza dei governi e del vuoto istituzionale.
La risposta non si è fatta aspettare: dal 28 dicembre, quasi quotidianamente, gli aerei dell’operazione Dignità tentano di bombardare le basi militari e il porto della città di Misurata, il più importante della Libia. Anche una petroliera greca è stata danneggiata nel porto della città di Derna.
Il rappresentante della UNSMIL (la missione ONU in Libia) Bernardino Leon ha tentato più volte, a partire da settembre, di far sedere le due parti a un tavolo di trattative, ma gli accordi sono sempre saltati. Finalmente, però, si è giunti a una mediazione e in settimana, a Ginevra, si terrà il primo incontro bilaterale. Un segnale importante per la Libia, soprattutto perché tra disordini, incendi di pozzi petroliferi e esportazioni di greggio ridotte ai minimi storici l’economia sta crollando. Un vero paradosso per un paese ricchissimo di petrolio e gas e un rischio forte per l’Europa e per l’Italia in primis. Infatti, oltre a raffinare parte del greggio libico, l’Italia riceve anche un corposo approvvigionamento di gas attraverso il gasdotto che da Mellita giunge diretto a Gela.