“Il gioco può creare dipendenza”.
Esclama una delle giudiziose ed avvedute pubblicità progresso sfornate dallo Stato.
In realtà, il gioco cosparge rovina e disperazione nell’esistenza di chi decide che quello deve essere il diabolico veleno da iniettare nella propria quotidianità, quello chiamato ad inondare psiche e linfa vitale, fino a logorare tutto: serenità, emotività, equilibrio, oltre che le finanze.
Impossibile spiegare e stabilire quanto radicato sia il vizio del gioco nella nostra società che annega nella costernazione e nella precarietà ed induce a rilevare in un “gratta e vinci” un’effimera e chimerica ancora di salvezza alla quale appigliarsi.
In realtà, il gioco è un vortice di mestizia nel quale, chi rimane travolto, sprofonda con la medesima repentina e straziante impotenza di chi si imbatte nella spietata e truculenta morsa delle sabbie mobili.
Dalle grandi metropoli sulle piccole periferie, le scene che tristemente si ripetono, tutti i giorni, sono le medesime.
Donne che freneticamente grattano quel brandello di speranza intriso nel cartoncino che premurosamente stringono tra le mani, insieme alla labile aspettativa di una vita migliore, più “ricca”, fondamentalmente, di quella serenità avulsa dalle preoccupazioni insite nell’incertezza legata alla precarietà che demarca l’era moderna, analoga a quella di un padre che non sa se riuscirà a pagare la retta universitaria di suo figlio o di una madre che vorrebbe concedere un pranzo più congruo alla sua famiglia o di un novello sposo che non sa se riuscirà a pagare la rata del mutuo o la bolletta della luce o di un’anziana, stanca di vivere di stenti e sacrifici, ancora e sempre.
Assurdo, paradossale, illogico, insensato che a “giocare”, prettamente, siano proprio “i precari” ed “i disperati”, quelli chiamati ad improvvisarsi equilibristi per imparare celermente a fare i salti mortali per far quadrare i conti.
Accade perché, abilmente, quei nomi, beffardi e millantatori: “turista per sempre”, “oro e diamanti”, “mega miliardario”, “maxi miliardario”, “sbanca tutto”, “cominciamo bene”, “un mare d’oro”, “una barca di soldi”, “magico tesoro”, “mi sento fortunato”, “portafortuna”, fanno sì che quei “cartoncini magici” si travestano da “ultima spiaggia” nella quale approdare per ambire alla conquista di una lauta somma utile per “mettere le cose a posto” e fuggire da quella schiacciante ed insopportabile realtà.
I “gratta e vinci” disseminano la speranza di una vita migliore ed i loro nomi, così come gli slogan e le pubblicità che li introducono, legittimano a sognare.
Comprendi quanto è devastante quella dipendenza e come siano distruttive le conseguenze che apporta alla psiche ed anche alle vite delle sue impotenti vittime, quando, dopo aver più e più volte “grattato a vuoto”, il giocatore si imbatte in un vincita che potrebbe fargli almeno recuperare la somma giocata fino a quel momento ed, invece, la richiesta indirizzata al rivenditore è sempre la medesima: “Me ne dia un altro”.
E vanno avanti così per ore, finché le tasche non urlano: “Basta!”
Perché vuote e stanche di assistere a quell’autolesionistico e deleterio scempio.
Che la protagonista della suddetta scena sia una vecchietta che da poco ha ritirato la pensione è un aspetto che incute ancor maggiore suggestione.
Già.
Accade anche questo.
Accade che, nell’arco di una mattinata, una speranzosa nonnina “gratti” l’intera cifra riscossa appena qualche ora prima e che avrebbe dovuto consentirle quanto meno di “sopravvivere” per un intero mese.
Quelli che imperversano in una condizione economica “tranquilla”, invece, giocano per inseguire “il sogno”, nel senso più veritiero e grandioso del termine: l’auto possente, la villa con piscina, il viaggio ai Caraibi.
Quella tipologia di giocatori, forse anche perché supportati da una condizione culturale ed ideologica differente, talvolta, si palesano capaci di riconoscere la propria dipendenza e decidono anche di affidarsi alle cure di uno specialista.
Quando, però, si ritrovano a ricadere in quel turbine di “gratta e spendi”, chiedono al rivenditore di vietargli di andare oltre una cifra prestabilita per acquistare altri tagliandi e gli intimano di farlo in ogni caso, a tutti i costi, vestendosi, così, dell’ancor più effimera e maliarda illusione di poter domare quello spietato vizio. Poiché, quando giunge quel preteso ed antecedentemente accordato “stop”, quella tipologia di giocatore, inscena la performance più imbarazzante ed al contempo maggiormente emblematica di quella prigionia di dipendenza che soggioga la sua impotente e debole mente.
Minacce, urla ed intimidazioni di qualsivoglia genere e natura contro quello stesso “alleato” al quale, pochi bricioli di attimi prima, aveva umilmente rivelato tutta la propria desolante fragilità.
Quella subordinazione ai “gratta e vinci” porta bambini a piangere ed implorare le madri, affinché gli concedano 10 centesimi del loro tempo e delle loro finanze, per comprargli una caramella.
Vana ed inascoltata speranza, illusoria ed insensata richiesta.
Al cospetto della brama del gioco, nulla può catturare maggiore attenzione, nemmeno l’amore di un figlio.
Quello che, sovente, quelle madri indirizzano ai loro bambini è un sonoro ceffone piuttosto che un acceso rimprovero verbale, perché hanno osato disturbarle mentre erano intente a “grattare”.
Altre madri, invece, coinvolgono i loro figli, rendendoli partecipi di quel gioco al massacro, consentendogli di scegliere in quale di quegli accattivanti nomi investire brama e denaro e vogliono, fortemente vogliono, che siano i loro stessi figli a “grattare”, inconsapevoli di quanto deleterio sia quell’atteggiamento per l’educazione e la crescita sana dei loro reali “brandelli di speranza in un futuro migliore”, designandoli eredi, in primis, di quell’indomabile e distruttivo vizio.
Esistono madri, divorate dal gioco fin dentro al midollo, alle quali non importa altro che “grattare” ed impongono ai loro figli di attraversare strade trafficate o di aggirarsi per vicoli e marciapiedi da soli per recarsi ad acquistare quel millantatore tagliando, seppur siano consapevoli che “il gioco è vietato ai minori” e, pertanto, è severamente vietato ai rivenditori rilasciare “gratta e vinci” ai minori.
Si inscena così un braccio di ferro infinito che non ha vincitori, ma solo vinti e quei vinti sono loro: i bambini.
Il gioco distorce la reale visione della realtà e non “arricchisce”, ma “impoverisce”, non solo le tasche, bensì inaridisce l’anima e soggioga la mente, rendendola incapace di godere delle vere ricchezze della vita.
Perché “lo Stato” non si aggira tra queste crude e drammatiche realtà per carpirne la gravità, piuttosto che dispensare sterili ed inascoltate frasi ad effetto?
Piuttosto che intimare di “giocare con moderazione”, se allo Stato stessero realmente a cuore le sorti di questo Paese e dei suoi abitanti, dovrebbe e potrebbe imporre alla sua stessa condotta una più consona “moderazione”.
I “gratta e vinci”, tuttavia, costituiscono solo la punta dell’iceberg efficace a palesare il malessere che imperversa nella nostra società, così come gli aspri rapporti che intercorrono tra cittadini e Stato.
Questa è la triste e reale verità scritta a chiare lettere su ciascuno di quei tagliandi e per apprenderla non è affatto necessario grattarli.