E’ un caldo giorno di fine luglio, e tra la sterpaglia e il vuoto delle strade violentate dal sole immensa è l’arsura e la sospensione intorno. Esiste una lingua di terra in Campania che va dal fiume Sele e termina a Paestum, circa dieci, quindici chilomentri di pianure deserte, dove lo sguardo non tocca che arbusti e luce. Entrare in questa zona è voltare le spalle al tempo presente, è costringere gli Dèi a smetterla con l’ambrosia e a scendere per darti la mano.
Questo luogo è un sacrario, e ad ogni passo senti il crepitare dei rami secchi, qualcuno che s’incrina, un altro che si spezza. Non ci sono case, solo qualche villetta buttata lì per caso, come coriandolo che cade dalle mani di un bimbo distratto.
A piedi, in queste strade che si proteggono dalla sabbia con folte pinete, procedo come parte di una processione religiosa, il mio andare terminerà nel recinto divino dei templi.
Dopo 5 chilometri tutti dritti, quasi ipnotici, nella magica via Posidonia, alla sinistra appare un enorme masso, poi un altro, fino a che quelle pietre solitarie non si fanno muro del tempo. Non posso che seguire quel filo d’Arianna fatto di memoria, e come la mitica Atalanta mi fermo ad ogni passo a raccogliere le monete d’oro che questo paesaggio mi dona.
Come lucertola che cerca riparo striscio al muro, stordito da meraviglia e torpore; lo seguo e mi ritrovo in una sterminata strada lievemente in salita, che sembra dare verso l’Olimpo. Mi consegno al volere degli antichi eroi, ubriaco di bellezza. Ancora un passo e un colosso di marmo, spaventoso nella sua eleganza geometrica, mi acceca coi suo marmi.
Non ricordo chi sono nè dove mi trovo. Nella catapulta del tempo qualcuno ha voluto tirarmi uno scherzo. Sono parte di un tempo in cui Cristo non c’era, vedo Zenone e la sua tartaruga, Parmenide che dalla sua Elea ( Velia) racconta a dei ragazzi la forma del tempo e la sfericità dell’Uno.
Non ho più maglia né jeans, mi ritrovo una tunica fermata con una spilla, un cratere tra le mani e vino fresco al miele.
Siedo sui gradini del tempio di Poseidone, non ricordi si chiami Nettuno né che questa cittadina si chiami Paestum. I romani non esistono ancora, sono lontani con la loro ragione e le loro armi. Giro lo sguardo, a sud il mare a scaglie, a nord colline, ad est le prime alture del Cilento, poi vento e cicale, rumori lontani, strisciare di serpi.
Annego in questo chiarore delle tre pomeridiane, colpito da un delirio divino. Altro che Atene, altro che Agrigento. Qui è un’altra cosa. Qui non c’è contaminazione, qui si è Greci, senza battesimo, con Dioniso che sorridente t’invita alla danza serale.
Carlo Lettera