Essere “nero” a Napoli negli anni Cinquanta non era una questione di stile, ma di sopravvivenza.
James Senese, figlio di una donna napoletana e di un soldato afroamericano arrivato con le truppe alleate, è cresciuto in un’Italia che non era pronta a lui. Lo guardavano come un estraneo, anche nella sua città. Eppure, da quel senso di esclusione, James ha tirato fuori un linguaggio nuovo, una musica che sapeva di orgoglio e rabbia, di malinconia e riscatto.
Con il suo sax e la voce roca, ha trasformato la ferita in forza. Ha preso il jazz americano e lo ha fatto parlare in napoletano, creando un ponte tra due mondi che sembravano inconciliabili.
“Io so’ nero e napulitano”, diceva, una frase che per lui non era solo un’affermazione, ma una dichiarazione di guerra contro ogni pregiudizio.
Negli anni Settanta fondò Napoli Centrale, portando il dialetto nei solchi del jazz e il funk nei vicoli dei Quartieri Spagnoli. Con quella band non cercava il successo facile: cercava rispetto, identità, verità. Ogni nota era una rivendicazione di dignità per chi vive ai margini, per chi non ha voce.
Il suo suono veniva “dal ventre della città”, come amava dire. Era il grido di chi è stato guardato dall’alto in basso, ma non si è mai piegato.
Un grido che oggi continua a risuonare, potente, libero, napoletano e universale.
James Senese non è stato solo un musicista: è stato un simbolo.
Un uomo che ha trasformato la diversità in bellezza, e la ferita in arte.









