Salvatore Abbate, detto “Totore ‘a cachera”: un nome che riecheggia nei quartieri orientali di Napoli, simbolo di intrecci tra camorra, affari e corruzione. Classe 1968, Abbate è noto per la sua vicinanza ai clan Mazzarella, Sarno, Cuccaro e De Micco, con i quali avrebbe collaborato nel corso degli anni.
Finito tra gli indagati per la tentata estorsione alla ditta impegnata nella costruzione del centro commerciale di via Argine, negli anni in cui era in pieno corso la dissoluzione del clan Sarno, Abbate è stato poi scagionato da quelle accuse.
Una rapida e vistosa ascesa quella di Totore ‘a cachera nel contesto malavitoso locale, complice un vincolo di parentela che lo lega alla famiglia Sarno: Abbate è il cugino di Patrizia Ippolito detta ‘a patana, moglie dell’ex boss ed ormai ex collaboratore di giustizia Vincenzo Sarno. Secondo quanto riferito da diversi collaboratori di giustizia, alla base della scalata di Abbate ci sarebbero proprio i soldi dei Sarno, nella fattispecie, quelli raccolti a suon di estorsioni da parte di Vincenzo Sarno nei mesi precedenti al pentimento e che poi avrebbe “investito” su una serie di prestanome prima di collaborare con la giustizia. Una sorta di ipoteca sul futuro, un investimento voluto per garantire alla famiglia una sicurezza economica, puntando tutto su prestanome insospettabili che da un lato avrebbero preservato il contatto-controllo del territorio per conto e in nome dei Sarno e dall’altro avrebbero continuato a curare gli affari illeciti, sotto mentite spoglie.
Negli anni in cui sul clan Sarno clava il sipario, Totore ‘a cachera era una figura insignificante e ampiamente sottovalutata: una giovane che conduceva una vita precaria, al limite dell’indigenza. Anche per questo motivo la sua rapida scalata al potere ha immediatamente attirato l’attenzione degli altri soggetti addentrati nelle dinamiche malavitose, mentre solo dopo molti anni è finito nel mirino degli inquirenti. Secondo diversi collaboratori di giustizia, a garantirgli una certa immunità fu un rapporto tanto ambiguo quanto solido con Vittorio Porcini, alias Vittorio ‘o guardie, sostituto commissario del commissariato di Polizia di Stato di Ponticelli che da decenni operava nel quartiere. L’uscita di scena di Porcini fu infatti clamorosamente sancita dall’arresto avvenuto nel 2021, nell’ambito di un’inchiesta relativa allo smaltimento illecito dei rifiuti e che riguardava Abbate, ma nel corso delle telefonate intercettate emerse proprio il rapporto bordeline con il sostituto commissario e pertanto gli inquirenti decisero di accendere un riflettore anche su Porcini che finì in manette con l’accusa di corruzione e dopo qualche mesi trascorso agli arresti domiciliari, decise di patteggiare una condanna a un anno 10 mesi con pena sospesa, chiudendo così la sua carriera di poliziotto a due anni dalla pensione.
Dai dialoghi intercettati emersero una serie di rivelazioni clamorose che gettarono copiose ombre sul ruolo del poliziotto, fino ad allora ritenuto essere una baluardo della legalità: dai “regali” più che generosi elargiti da Abbate, alla sua partecipazione alla festa di compleanno di quest’ultimo dove tra gli invitati spiccava la presenza di diverse figure apicali della camorra locale, fino alla trattativa di mediazione avviata da Porcini, allorquando, libero dal servizio, si recò a san Giovanni a Teduccio per cercare recuperare un milione di euro che ‘a cachera aveva versato nelle casse di Antonio Di Dato – genero del boss Luigi De Micco – e Vittorio Esposito per l’acquisto di una quantità di combustibile di contrabbando che non gli era mai stata consegnata.
Accusato di corruzione e accesso abusivo ai sistemi informativi della polizia, reati che secondo la Direzione distrettuale antimafia avrebbe commesso per favorire l’“amico” Salvatore Abbate, il sostituto commissario in sede di interrogatorio di garanzia spiegò che il suo rapporto con Abbate era in realtà di natura investigativa, finalizzato cioè a ottenere informazioni sugli ultimi movimenti della malavita di Napoli Est. Tuttavia, Porcini non aveva mia prodotto informative indirizzate alla DDA di Napoli, non mettendo quindi nero su bianco, gli elementi emersi durante la presunta attività investigativa.
Porcini smentì di aver mai fornito notizie coperte da segreto investigativo e, soprattutto, di aver ricevuto denaro in cambio di quei presunti favori. Secondo la Procura, il poliziotto avrebbe intascato una tangente di mille euro. Circostanza che Porcini respinse con fermezza spiegando che si sarebbe trattato del valore di una cassetta di vino: «Anche se nelle intercettazioni non se ne parla, e in questo sono stato sfortunato, si trattava di vino. Vino che io nemmeno volevo. Io però non ho mai preso soldi. Voleva i mille euro alle bottiglie di vino. (Abbate, ndr) Mi diede questa cassetta di vino dalla Sicilia e purtroppo non se ne parla, ha ragione, e dissi ma io non la voglio, non lo volevo e dico ma che è mille euro, nel senso che ti sto dando mille euro. Ripeto, io non ho mai preso soldi da nessuno. Ma poi a che cosa mi servivano mille euro, non è che mi facevano ricco né mi facevano sporco».
Inoltre, l’imprenditore dedito allo smaltimento illecito di rifiuti, avrebbe riconosciuto altri favori al sostituto commissario, come la ristrutturazione ex novo del suo appartamento e l’assunzione del genero nella sua impresa edile, oltre a diversi regali “sostanziosi”, come un costoso smartphone di ultima generazione regalato da Abbate a Porcini e un altrettanto costoso intervento di chirurgia estetica al quale si sottopose una parente del Porcini, gentilmente offerto dallo stesso imprenditore in odore di camorra. Seppure in sede di interrogatorio di garanzia Porcini ribadì con fermezza la sua estraneità ai fatti contestati, pochi mesi dopo patteggiò una pena di un anno e 10 mesi di reclusione, a due anni dalla pensione. Terminò così la carriera del poliziotto più in vista del commissariato di Ponticelli.
Un’uscita di scena che sembra non aver scritto la parola fine sulla vicenda per quanto numerosi e forti siano ancora i richiami che – secondo quanto riferito da diversi collaboratori di giustizia – accostano tuttora la figura di Porcini a quella di Abbate che, rispetto ai fatti che gli furono contestati nel 2021, a sua volta ha optato per il patteggiamento. In quella circostanza, Abbate è stato arrestato nell’ambito di un’inchiesta su corruzione e traffico illecito di rifiuti. Secondo gli inquirenti, avrebbe corrotto funzionari pubblici per ottenere appalti attraverso affidamenti diretti e illegittimi. In seguito all’arresto, Abbate ha deciso di collaborare con la giustizia, fornendo dettagli sulle sue attività illecite e sui complici coinvolti.
Dopo un breve periodo trascorso in sordina in regime di detenzione domiciliare, Abbate è tornato a marcare in maniera eclatante la scena camorristica locale.
Abbate ha cercato di infiltrarsi nei lavori di bonifica dell’ex raffineria Q8 di Ponticelli, un’area contaminata da amianto. Attraverso intimidazioni e pressioni, avrebbe cercato di ottenere subappalti per la rimozione del materiale pericoloso. Tuttavia, grazie alla denuncia di un imprenditore coraggioso, le forze dell’ordine sono intervenute, portando al suo recente arresto con l’accusa di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso.
La storia di Salvatore Abbate, detto “Totore ’a cachera”, è quella di un imprenditore controverso, da anni al centro di indagini che intrecciano affari, appalti pubblici e camorra. Legato storicamente all’area del clan Sarno e poi vicino al gruppo dei De Micco di Ponticelli, Abbate ha costruito la propria influenza nel settore dei rifiuti e delle bonifiche ambientali, spesso operando ai margini della legalità. Arrestato più volte, nel 2021 per le infiltrazioni criminali nella gestione dei rifiuti e di recente per tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso nella bonifica dell’ex raffineria Q8, rappresenta il volto di una criminalità che si muove tra impresa e clan, tra corruzione e violenza. La sua figura incarna l’evoluzione della camorra economica, capace di insinuarsi nei cantieri pubblici e di condizionare l’economia legale.









