Il gip Maria Gabriella Iagulli lo ha definito un “triste e spregiudicato gioco, condiviso con tutti i compagni”. Un gioco che, la notte del 9 novembre scorso, è costato la vita al diciottenne Arcangelo Correra, colpito alla testa da un proiettile esploso dall’arma impugnata dal suo amico fraterno, il ventenne Renato Benedetto Caiafa.
Durante la giornata di martedì 9 settembre, nel carcere dove è già detenuto, Caiafa ha ricevuto dalla Polizia di Stato la notifica di una nuova, pesantissima accusa: omicidio volontario con dolo eventuale.
Il giudice, accogliendo le conclusioni della Squadra Mobile e della Procura di Napoli, ha sottolineato che quell’arma non era stata trovata “per caso”, come sempre sostenuto da Caiafa. Il ventenne, infatti, dichiarava di averla rinvenuta su un pneumatico di un’auto parcheggiata. Le indagini hanno rivelato che l’arma – una pistola carica con 18 colpi, perfettamente funzionante e dotata di un caricatore maggiorato da 26 – era nelle sue mani già da giorni.
“Non poteva non sapere che fosse carica”, scrive il gip. Non si trattava di un ragazzo ignaro: Caiafa era “un giovane già avvezzo all’uso delle armi”, capace di maneggiare caricatori, scarrellare e armare colpi in canna.
Secondo l’ordinanza, Renato Caiafa aveva portato con sé la pistola “per farsi bello agli occhi degli amici”, mostrandola con orgoglio e vanteria. Per il giudice, l’arma rappresentava un mezzo per sentirsi più sicuro, ottenere rispetto nel gruppo e, probabilmente, attirare l’attenzione di ambienti criminali di “caratura più elevata”.
Già nei giorni precedenti l’aveva mostrata più volte agli amici. La notte del 9 novembre, nel pieno del “gioco” che lui stesso aveva alimentato, l’ha puntata alla testa dell’amico Arcangelo e ha premuto il grilletto.
Il giudice riconosce che Caiafa non avesse l’intenzione diretta di uccidere il suo amico fraterno. Tuttavia, nel puntare una pistola carica alla testa di qualcuno e nel premere il grilletto, ha accettato consapevolmente la possibilità di un esito letale.
Per sparare, sottolinea l’ordinanza, “è necessario esercitare una forza pari a tre chilogrammi”: un’azione che non può avvenire accidentalmente, ma solo in maniera deliberata. E così, quel colpo partito dalla canna ha trasformato una bravata in tragedia.
Il caso di Arcangelo Correra scuote Napoli, città dove troppo spesso armi e gioventù si intrecciano in storie di violenza e incoscienza. La definizione di “gioco spregiudicato” restituisce tutta la gravità di un dramma che non ha solo tolto la vita a un ragazzo di 18 anni, ma ha anche segnato per sempre il destino di un coetaneo, che ora dovrà rispondere davanti alla giustizia di un’accusa durissima: omicidio volontario con dolo eventuale.