Su Facebook è emerso un gruppo pubblico chiamato “Mia Moglie”, attivo dal 2018–2019 e che ha raggiunto oltre 30 000 iscritti, in gran parte uomini, dove venivano condivise foto intime – spesso senza alcun consenso – di donne, presentate come mogli, compagne o sconosciute. Le immagini mostrano spesso scatti in costume, in intimo o in contesti privati, accompagnate da commenti esplicitamente sessisti, volgari e umilianti.
La scrittrice e attivista Carolina Capria, nota per la pagina Instagram L’ha scritto una femmina, ha contribuito a portare alla luce il caso tramite segnalazioni pubbliche. Nei giorni successivi, una massiccia ondata di segnalazioni sia alla Polizia Postale sia a Meta ha portato alla rimozione del gruppo.
Il gruppo era solo “la punta dell’iceberg”. Subito dopo la sua rimozione, sono emersi altri spazi analoghi su Facebook e Telegram, tra cui alcuni canali in cui si scambiano immagini di donne e, in casi più gravi, materiale pedopornografico.
L’associazione Meter, impegnata contro lo sfruttamento sessuale dei minori, ha denunciato la ricostituzione continuativa di questi gruppi nonostante le rimozioni.
Lo psichiatra Leonardo Mendolicchio ha commentato criticamente il fenomeno, osservando come esso rispecchi perversioni radicate in logiche patriarcali e culturali, secondo cui il corpo femminile diventa merce condivisa tra uomini.
La vicenda ha acceso il dibattito sull’importanza di un’educazione diffusa al rispetto, alla consapevolezza digitale e al consenso. Azioni come la chiusura dei gruppi sono fondamentali, ma non sufficienti: serve un impegno concreto delle piattaforme, delle istituzioni e del sistema educativo per contenere la normalizzazione della violenza mediatica e culturale contro le donne.