Il tragico bilancio della guerra a Gaza racconta una realtà spaventosa: oltre 230 giornalisti sono stati uccisi dall’inizio del conflitto, rendendola la zona più letale della storia recente per i media.
Tra le vittime più recenti, il reporter Anas al-Sharif e quattro colleghi di Al Jazeera, colpiti da un bombardamento israeliano mentre si trovavano in una tenda stampa vicino all’ospedale Al-Shifa.
Al Jazeera ha condannato il raid come un “assassinio premeditato”, teso a zittire chi documenta la crisi umanitaria.
Organizzazioni come Reporters Without Borders (RSF) e la International Commission of Jurists (ICJ) denunciano un pattern inquietante: non si tratta più di tragici incidenti causati dalla guerra, ma di una campagna mirata per silenziare i testimoni. Gli esperti dell’ONU hanno sottolineato che il semplice fatto che i giornalisti portino giubbotti o veicoli contrassegnati “Press” non li protegge più, anzi, li espone a un pericolo ancora più grave.
Israele ha spesso giustificato i colpi affermando che i giornalisti colpiti erano membri attivi di Hamas o di altre fazioni armate. Queste accuse, però, non sono mai state supportate da prove credibili. Al contrario, testimoni e colleghi di al-Sharif hanno descritto una lunga campagna di minacce e delegittimazione da parte dell’IDF, che ha mirato a screditare i giornalisti ancor prima di eliminarne la voce.
Con i media internazionali esclusi dall’area, i giornalisti palestinesi sono diventati gli occhi del mondo su quanto accade a Gaza. Colpirli significa tentare di chiudere ogni finestra verso la verità. Come ha sottolineato l’International Press Institute con durezza: “Questo attacco senza precedenti contro la sicurezza dei giornalisti non può essere tollerato” .
Quello che si sta verificando a Gaza non può essere visto come semplice danno collaterale: è una strategia sistematica per eliminare ultimi testimoni del conflitto. Dietro ogni colpo, la volontà chiara di cancellare voci, soppresse l’informazione, controllare la verità.