Il nome di Giovanni Falcone è oggi sinonimo di giustizia, rigore, coraggio. Magistrato simbolo della lotta alla mafia, fu tra i protagonisti di una stagione giudiziaria senza precedenti in Italia, culminata nel Maxiprocesso di Palermo e tragicamente interrotta dalla strage di Capaci del 23 maggio 1992. Ma Falcone fu molto più di una vittima: fu un innovatore, un uomo solo spesso osteggiato anche da colleghi e istituzioni, ma che non smise mai di credere nello Stato di diritto.
Nato a Palermo il 18 maggio 1939, Giovanni Falcone cresce in una famiglia borghese del capoluogo siciliano. Dopo la laurea in giurisprudenza, sceglie la strada della magistratura, entrando nel 1964. La svolta arriva nel 1979, quando entra nell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, guidato da Rocco Chinnici, ucciso poi dalla mafia nel 1983. È qui che Falcone inizia a studiare la criminalità organizzata con un approccio nuovo: razionale, documentato, analitico.
Una delle intuizioni più rivoluzionarie di Falcone fu l’importanza di seguire le tracce finanziarie della mafia: “Segui i soldi, e troverai la mafia”, diceva.
Con questo metodo riuscì a scardinare i legami tra criminalità, affari e politica. Collaborando con investigatori, forze dell’ordine e analisti, creò un modello investigativo che oggi è alla base del contrasto alle mafie in tutto il mondo.
Nel 1984, con Tommaso Buscetta, il primo vero grande pentito di Cosa Nostra, Falcone trova la chiave per colpire la mafia dall’interno. Le sue testimonianze permettono la celebrazione del Maxiprocesso (1986-1987), istruito insieme ai colleghi del pool antimafia: Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta e Antonino Caponnetto.
Il processo si conclude con 19 ergastoli e oltre 2600 anni di carcere per 475 imputati: un colpo durissimo per Cosa Nostra.
Dopo il Maxiprocesso, Falcone viene osteggiato anche all’interno delle istituzioni. Attacchi, diffidenze, promozioni mancate. Deluso ma non arreso, accetta l’incarico al Ministero della Giustizia nel 1991, dove lavora per costruire una magistratura più moderna ed efficace. Qui elabora la struttura della Direzione Nazionale Antimafia (DNA), che sarà istituita poco dopo la sua morte.
Il 23 maggio 1992, Giovanni Falcone vola a Palermo con la moglie, il magistrato Francesca Morvillo. La loro auto, insieme a quelle della scorta, viene colpita da 500 chili di tritolo piazzati sotto l’autostrada nei pressi di Capaci. Con lui muoiono anche gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. È uno degli attentati più eclatanti della storia repubblicana italiana, orchestrato dai vertici di Cosa Nostra, su ordine di Totò Riina.
Falcone fu spesso un uomo lasciato solo. Vittima di campagne diffamatorie, accuse infamanti, invidie e sospetti. Ma non si fermò mai. Credeva che la mafia fosse un fenomeno umano, destinato prima o poi a finire. Le sue intuizioni, le sue indagini, il suo sacrificio hanno aperto la strada a una nuova coscienza civile.
Oggi il suo nome è scolpito nella memoria collettiva: scuole, vie, aeroporti, monumenti lo ricordano. Ma il vero modo per onorarlo è continuare la sua battaglia con gli strumenti della democrazia e della legalità.
“Gli uomini passano, le idee restano e continuano a camminare sulle gambe di altri uomini”, disse.
Quelle idee oggi camminano ancora. Grazie a lui.