Il 6 maggio 2016, Maria Chindamo, imprenditrice calabrese di 44 anni, scomparve misteriosamente davanti alla sua azienda agricola a Limbadi, nel Vibonese. A nove anni di distanza, la sua storia è diventata simbolo di resistenza femminile contro la cultura patriarcale e mafiosa.
Laureata in economia e commercio e madre di tre figli, Maria aveva perso il marito un anno prima della sua scomparsa. La sua determinazione nel gestire autonomamente le terre di famiglia, rifiutando compromessi con la criminalità organizzata, l’ha resa un simbolo di resistenza civile in Calabria. Nonostante la sua assenza, la sua voce continua a ispirare la lotta per la legalità e la giustizia nella regione.
Maria Chindamo è tra le decine di vittime di lupara bianca. Una pratica diffusa nella ‘ndrangheta del vibonese che è un doppio oltraggio: si ammazza e si sottrae il corpo al lutto dei familiari.
La mattina della scomparsa, l’unica telecamera di sorveglianza presente nella zona era stata manomessa, segno di un piano premeditato. Le indagini iniziali non portarono a risultati concreti, lasciando la famiglia e l’opinione pubblica senza risposte.
Una svolta nelle indagini è arrivata grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonio Cossidente, ex membro del clan dei Basilischi. Cossidente ha riferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro che Maria sarebbe stata uccisa per essersi rifiutata di cedere i suoi terreni a Salvatore Ascone, vicino al clan Mancuso. Il suo corpo sarebbe stato poi fatto a pezzi e dato in pasto ai maiali o macinato con un trattore.
Salvatore Ascone è stato indagato per l’omicidio di Maria Chindamo. Secondo l’accusa, avrebbe manomesso il sistema di videosorveglianza insieme al figlio minorenne per agire indisturbato. Il processo contro di lui è iniziato il 14 marzo 2024 presso la Corte d’Assise di Catanzaro.