Il 2025 a Napoli si è aperto con l’omicidio di Enrico Capozzi, 37 anni, prima vittima di un agguato di matrice camorristica dell’anno. Più della violenza a cui questa città è tristemente abituata, colpisce il silenzio calato subito dopo sulla sua storia. Un silenzio denso di pregiudizi e indifferenza.
Bastano due etichette per archiviare in fretta una morte: “pregiudicato” e “parente di”. Due parole che sminuiscono una vita e la relegano nel dimenticatoio. Enrico era entrambi, secondo chi giudica senza conoscere, ma era anche e soprattutto un padre. Un uomo che aveva perso la moglie, Mariarca, morta tragicamente per un aneurisma mentre era al mare con i loro figli. Da quel giorno, Enrico conviveva con il peso e la responsabilità di badare da solo ai suoi figli.
La sua morte non è stata una fatalità. È stata una condanna scritta quando ha scelto di denunciare i suoi estorsori. Un atto di coraggio che, nella logica perversa della camorra, si paga con la vita.
Molti si chiedono perché non sia andato via da Napoli, consapevole del pericolo al quale era sovraesposto da quando aveva decretato la carcerazione del ras dei De Micco, Antonio Nocerino detto brodino. La risposta è semplice e umana: Enrico non voleva scappare. Ponticelli era casa sua, lì voleva crescere i suoi figli, restare vicino ai suoi affetti. E, soprattutto, si era fidato dello Stato.
Uno Stato che, però, lo ha lasciato solo. Forse proprio perché era “parente di” e “pregiudicato”. Come se la sua vita valesse meno di altre. Ma la verità è che non esistono vite più preziose di altre.
Enrico meritava protezione. Aveva diritto di essere tutelato, come un magistrato, un politico o chiunque abbia scelto di stare dalla parte della legalità. Il suo gesto di denuncia non doveva essere ignorato.
Questa storia non può chiudersi qui. La sua memoria deve essere più forte del pregiudizio. E il suo sacrificio deve accendere i riflettori su chi, come lui, ha avuto il coraggio di parlare e oggi vive nel terrore.
A Ponticelli, quartiere segnato da faide e potere criminale, ci sono altre persone come Enrico che hanno firmato denunce contro i clan e che oggi ricevono minacce. Sanno di essere bersagli. Gli inquirenti sanno chi sono. Sanno chi sono i camorristi da loro denunciati.
La morte di Enrico Capozzi ha introdotto un clima di terrore e tensione che concorre a minare la serenità di chi è ugualmente consapevole di essere nel mirino dei sicari della camorra, proprio perché, come Enrico, ha denunciato i suoi estorsori e li ha fatti arrestare.
Le minacce ricevute dai soggetti che hanno sporto denunce contro elementi di spicco della camorra locale rappresentano un pericolo concreto per coloro che si sono macchiati della stessa colpa di Enrico Capozzi. Una notizia di dominio pubblico, una delle tante sulla bocca di tutti, ma che resta taciuta per osservare il perentorio invito all’omertà e al silenzio imposto dal clan.
Un monito che nei giorni scorsi, il clan ha rinnovato ed esteso anche alla direttrice di “Napolitan.it”, la giornalista Luciana Esposito, malgrado nelle settimane precedenti abbia annunciato la volontà di smettere di occuparsi della camorra di Ponticelli.
Un invito disobbedito dalla giornalista perchè, in questo caso, la natura della notizia non è la camorra di Ponticelli, ma il rispetto della vita, ancor più di quelle vite che si affidano allo Stato denunciando i propri aguzzini e che meritano di essere preservate, tutelate e soprattutto salvate.