La notizia della morte di Emanuele Durante, il giovane 20enne ucciso in un agguato a Napoli, ha scatenato un’ondata di titoli e articoli che, anziché concentrarsi sulla sua storia e sulle circostanze dell’omicidio, hanno scelto di puntare i riflettori su un legame di parentela che nulla ha a che fare con la dinamica del delitto.
Emanuele era il nipote di secondo grado di Annalisa Durante, la 14enne vittima innocente della camorra, uccisa nel 2004 da un proiettile vagante durante uno scontro tra clan nel quartiere Forcella. Un legame di sangue che, nei fatti, non aggiunge nulla alla comprensione della tragedia di Emanuele, ma che molti giornali hanno usato come leva per attirare l’attenzione, sbattendo in prima pagina l’immagine della giovane Annalisa.
Due vite mai incrociate — Annalisa è morta nel 2004, Emanuele è nato nel 2005 — eppure unite dalla narrazione mediatica in nome di quella morbosa ricerca di clamore che trasforma la cronaca in spettacolo.
È davvero questo il compito del giornalismo?
Un giornalista dovrebbe raccontare la verità, scavare nelle storie delle vittime per restituire dignità a chi non c’è più e per aiutare a comprendere il contesto in cui è maturata la violenza, oltre a far luce sul movente e sulla dinamica dell’agguato. Invece, la scelta di accostare Emanuele ad Annalisa sembra rispondere più a una logica di visibilità che di informazione. Perché il nome di Annalisa Durante è tristemente noto, associarlo alla vicenda garantisce un’eco maggiore. Ma a quale prezzo?
Il padre di Annalisa, Giovanni Durante, ha dedicato la sua vita a trasformare il dolore in impegno, promuovendo la cultura della legalità tra i giovani, affinché il nome di sua figlia fosse simbolo di speranza e riscatto, non di ulteriore sofferenza. A Forcella, il quartiere di Annalisa, è nata una biblioteca che porta il suo nome e sono tantissime le iniziative dedicate alla sua memoria che continuano ad avvicendarsi, sprezzanti dei decenni trascorsi da quella tragica sera in cui la 14enne rimase coinvolta in un conflitto a fuoco tra clan, raggiunta da un proiettile che non le ha lasciato scampo. Usare la sua immagine per amplificare una notizia non collegata direttamente alla sua storia rischia di svilire questi sforzi, riportando Annalisa al centro di una narrazione che non le appartiene più.
Emanuele Durante merita di essere raccontato per ciò che è stato e non per il legame con una tragedia del passato. E Annalisa merita di essere ricordata per i valori che ha finito per incarnare, non come un volto da sfruttare per aumentare lettori e clic.
Il giornalismo ha una responsabilità: raccontare i fatti senza piegarsi alla tentazione del gossip. Perché dietro ogni vittima c’è una storia da rispettare. E, soprattutto, delle famiglie che meritano verità, non spettacolo.