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Chi sono Marco e Gabriele Bianchi: i due fratelli condannati per l’omicidio di Willy

Redazione Napolitan di Redazione Napolitan
14 Marzo, 2025
in Cronaca, In evidenza
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Chi sono Marco e Gabriele Bianchi: i due fratelli condannati per l’omicidio di Willy
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I fratelli Marco e Gabriele Bianchi sono diventati tristemente noti per il brutale omicidio di Willy Monteiro Duarte, avvenuto a Colleferro nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020. La loro figura è stata oggetto di numerose analisi mediatiche e giudiziarie, dipingendo il ritratto di due giovani cresciuti tra violenza, arroganza e una cultura di sopraffazione. Ecco un ritratto dettagliato dei due fratelli.

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Marco e Gabriele Bianchi sono nati e cresciuti ad Artena, una cittadina vicino Roma. Provenienti da una famiglia benestante, i due fratelli conducevano una vita piuttosto agiata e ostentavano il loro status con auto di lusso e vacanze sfarzose, spesso documentate sui social.

Fisicamente robusti e praticanti di MMA (Mixed Martial Arts), erano conosciuti nella loro zona per i modi prepotenti e il comportamento aggressivo. Nonostante la giovane età — Marco aveva 24 anni e Gabriele 26 all’epoca dell’omicidio — si erano già costruiti una reputazione da “boss di quartiere”, temuti più che rispettati.

Molti testimoni locali hanno raccontato di frequenti risse e pestaggi, sempre a loro protagonisti, che però non avevano mai portato a gravi conseguenze giudiziarie prima della notte dell’omicidio di Willy.

I fratelli Bianchi incarnavano uno stile di vita improntato sulla prepotenza e la sopraffazione. Erano conosciuti non solo per la violenza, ma anche per la loro arroganza ostentata. Sui social pubblicavano foto con abiti firmati, orologi di lusso, moto costose e vacanze esclusive.

Si vantavano delle loro abilità nelle arti marziali, usandole non per sport, ma per imporre il loro dominio nei locali e tra i coetanei. La loro cerchia di amici li seguiva quasi come fossero dei “capi”, e chi osava mettersi contro di loro rischiava di finire vittima della loro rabbia.

Il loro ruolo nell’omicidio di Willy

La notte dell’omicidio, i fratelli Bianchi arrivarono a Colleferro richiamati da un amico — Francesco Belleggia — coinvolto in una lite. Senza chiedere spiegazioni, si scagliarono contro Willy, che si era fermato solo per cercare di calmare la situazione.

La violenza fu immediata e letale: calci, pugni e colpi mirati al torace e al collo, sferrati con la freddezza di chi conosce bene come colpire per fare male. L’autopsia rivelò che Willy morì a causa di un colpo al torace che gli spezzò il cuore.

Willy non ebbe nemmeno il tempo di difendersi.

Durante il processo, il comportamento dei fratelli Bianchi ha continuato a suscitare sdegno. I due si dichiarano innocenti, cercando di minimizzare il loro coinvolgimento. Più volte si sono presentati in aula con atteggiamenti sprezzanti, mostrando una freddezza che ha colpito profondamente l’opinione pubblica.

Solo in seguito, Marco Bianchi ammise di aver colpito Willy, ma cercò di scaricare la responsabilità sugli altri. La difesa tentò di far passare i fratelli come ragazzi normali coinvolti in una situazione sfuggita di mano, ma la brutalità delle immagini e delle testimonianze li inchiodò definitivamente.

In primo grado, i fratelli Bianchi furono condannati all’ergastolo per omicidio volontario aggravato. La sentenza suscitò un forte dibattito pubblico, soprattutto quando, in appello nel 2023, la pena venne ridotta a 24 anni, riconoscendo loro alcune attenuanti generiche — decisione che indignò la famiglia di Willy e l’opinione pubblica.

Infine, oggi, 14 marzo, la Corte d’Appello bis ha ribaltato nuovamente il verdetto: Marco Bianchi condannato all’ergastolo, Gabriele Bianchi condannato a 28 anni di reclusione.

La Cassazione aveva annullato la sentenza precedente, giudicando inadeguata la concessione delle attenuanti, data la gravità e la brutalità dell’aggressione.

La storia dei fratelli Bianchi rappresenta uno spaccato doloroso della società: ragazzi giovani, cresciuti in un contesto dove la forza e l’arroganza vengono scambiate per rispetto, e dove la violenza diventa un mezzo per affermarsi.

Dall’altra parte, la figura di Willy resta l’opposto perfetto di questa mentalità: un ragazzo buono, educato, che ha pagato con la vita la sua scelta di non voltarsi dall’altra parte.

Willy è diventato un eroe silenzioso, mentre i suoi assassini rimarranno per sempre il volto di quella violenza cieca che il nostro Paese non vuole più tollerare.

Il contesto familiare e sociale dei fratelli Bianchi

Per capire a fondo chi sono i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, è importante analizzare anche il contesto in cui sono cresciuti.

La famiglia Bianchi era conosciuta ad Artena, il loro paese di origine, come una famiglia benestante e rispettata. I genitori, pur non avendo precedenti penali, non sembravano aver mai contrastato apertamente il comportamento violento dei figli.

Secondo diverse testimonianze, i fratelli erano viziati e protetti. Vivevano una vita agiata, senza la necessità di lavorare stabilmente, e questo alimentava la loro immagine di ragazzi “superiori” agli altri. Le auto di lusso e i vestiti costosi che ostentavano sui social non riflettevano guadagni lavorativi, ma piuttosto un’idea di potere che derivava dalla forza fisica e dalla loro fama locale.

I due praticavano MMA (arti marziali miste), disciplina che dovrebbe insegnare disciplina e autocontrollo, ma che per loro è diventata uno strumento di intimidazione. Il loro fisico possente e la padronanza delle tecniche di combattimento li rendeva ancora più temuti dai coetanei.


La “legge” di Artena: paura e silenzio

Ad Artena, i fratelli Bianchi erano più che conosciuti: erano temuti.

Molti giovani della zona li vedevano come una sorta di “banda locale”, sempre circondati da amici e complici che li idolatravano. Chi provava a opporsi rischiava di finire vittima della loro violenza.

Non erano rari i racconti di pestaggi brutali contro chi osava guardarli male o rispondere a tono. Tuttavia, molti episodi non venivano denunciati, proprio per la paura di ritorsioni.

In alcuni casi, si parla addirittura di compiacenza locale: la loro famiglia godeva di una certa considerazione e i due fratelli, nonostante le continue risse, erano riusciti a restare impuniti fino al tragico omicidio di Willy.


Il ruolo dei social media: “bad boys” o bulli?

I social hanno giocato un ruolo importante nella costruzione della loro immagine. I Bianchi amavano mostrarsi come ragazzi di successo, sempre circondati da lusso e amici. Spesso pubblicavano foto e video in cui esibivano muscoli e oggetti costosi, alternati a immagini di allenamenti di combattimento.

Volevano apparire come “bad boys” vincenti, ma dietro quella facciata c’era una realtà fatta di arroganza, violenza e sopraffazione.

Molti ragazzi più giovani li ammiravano per il loro stile di vita — una fama tossica, costruita sulla paura e sull’idea che “essere forti” significasse dominare gli altri.


Un modello sbagliato da smontare

La vicenda dei fratelli Bianchi apre una riflessione più ampia sulla cultura della violenza e sulla figura del “bullo che diventa idolo”.

I due non erano semplici aggressori, ma il risultato di una società dove spesso l’arroganza viene scambiata per carisma, e dove chi alza le mani viene visto come “uomo di rispetto”.

La storia di Willy, invece, insegna l’esatto opposto: il vero coraggio è restare fedeli ai propri valori, proteggere chi è più debole e non voltarsi dall’altra parte.

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Omicidio Willy: ergastolo per Marco Bianchi, 28 anni per Gabriele

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