I fantasmi del passato tornano ad aleggiare sul rione Conocal di Ponticelli, fortino del clan D’Amico, organizzazione perennemente in guerra con i De Micco per il controllo degli affari illeciti. E non solo.
L’eterna faida di Ponticelli nel corso degli anni è stata più volte inasprita da omicidi eccellenti ed episodi eclatanti che hanno contribuito a proiettare le ostilità ben oltre le semplici logiche legate ai traffici illeciti e alla brama di potere. Una guerra che fin qui ha fatto contare dozzine di morti, ciascuna delle quali racconta una storia e soprattutto rappresenta una ferita, un conto in sospeso da saldare. Una miriade di tasselli che compongono un puzzle tutt’altro che difficile da decifrare.
La logica che alimenta le ostilità è la costante che si ripete invariata da ormai oltre un decennio e vede i De Micco collocati, per l’ennesima volta, in una posizione privilegiata rispetto ai rivali, di contro costretti a soccombere e a battere in ripiegata. Non a caso, da diversi mesi i D’Amico stanno optando per un profilo basso, uno stile di vita rigido e prudente che impone di ridurre al minimo indispensabile le uscite per evitare di finire nel mirino dei sicari del clan rivale. Un’esigenza amplificata dall’omicidio di Massimo Lucca, zio dell’attuale reggente del clan D’Amico. Un agguato che consegna al clan del Conocal un messaggio inequivocabile: i rivali vogliono la testa del ras. In quest’ottica, l’omicidio andato in scena lo scorso ottobre poteva essere finalizzato a far uscire allo scoperto l’attuale reggente dei D’Amico, nonché unico genero del boss Antonio D’Amico rimasto fedele al clan della famiglia della moglie, mentre gli altri cognati sarebbero tutti “tornati alle origini”, seguitando a dare man forte ai De Micco, complici alcuni vincoli di parentela che consolidano l’unione d’intenti tra i mariti delle altre figlie di “Tonino fraulella” e alcune figure apicali del clan rivale. In questo frangente sarebbe maturato anche il “tradimento” di Giuseppe Perrella, parente dei D’Amico, legatissimo a Vincenzo Costanzo, il 26enne che ha ricoperto il ruolo di reggente del clan di famiglia fino alla sera del 5 maggio del 2023, quando fu ucciso in un agguato di camorra in piazza Volturno a Napoli, durante i festeggiamenti per la vittoria del terzo tricolore azzurro.
Un voltafaccia che conferisce ai rivali un asso nella manica preziosissimo e che al contempo concorre a delineare uno scenario assai simile a quello che portò alla morte di Annunziata D’Amico, sorella di Antonio e Giuseppe, boss fondatori dell’omonimo clan. Il killer Antonio De Martino, la mattina del 10 ottobre del 2015, fece irruzione in via al chiaro di luna, nel rione Conocal, quartier generale dei D’Amico dove risiedono tutti i membri della famiglia, e uccise la donna-boss che rientrava dal carcere di Santa Maria Capua Vetere, dopo aver sostenuto un colloquio con il suo primogenito, Gennaro. Seppure la D’Amico fosse restia ad abbandonare la sua abitazione, proprio perché consapevole di rischiare la vita, quella mattina a prevalere fu il cuore di mamma. Una decisione che si rivelò fatale. I rivali approfittarono della prima occasione utile per mettere a segno l’agguato utile a mettere fine alle ostilità, consacrando l’egemonia dei De Micco a Ponticelli.
Oggi, come allora, il reggente dei D’Amico vive barricato in casa per evitare di finire vittima dello stesso copione. Consapevole di essere il bersaglio da colpire per consacrare, ancora una volta, la supremazia del clan rivale, il ras dei D’Amico si guarda bene dal compiere un atto imprudente.
Seppure quel sabato mattina, quando Annunziata D’Amico giunse nell’istituto penitenziario in cui era recluso il primo dei suoi sei figli, anche Antonio De Martino si trovava nello stesso posto e per la stessa ragione, per sostenere un colloquio con sui fratello Giuseppe, non fu lì che scoprì che la reggente del clan rivale aveva abbandonato la sua roccaforte. Probabilmente, Antonio “XX” si recò in carcere insieme alla madre per costruirsi un alibi, già consapevole che il suo obiettivo era quello di uccidere “la passillona”.
A tradire la donna-boss fu una parente che intratteneva una relazione extraconiugale con una figura di spicco del clan rivale. Un uomo che frequentava abitualmente l’abitazione, poco distante a quella della boss ed era solito anche pernottare a casa della donna. Come accadde quella sera. La mattina seguente, pertanto, il ras rivale ebbe modo di apprendere in tempo reale la notizia dell’allontanamento della D’Amico dal suo fortino e di segnalarlo tempestivamente ai gregari, affinché potessero pianificare l’agguato. Una circostanza della quale i membri della famiglia D’Amico erano consapevoli fin da subito, tant’è vero che temevano per l’incolumità delle altre donne di casa. I De Micco, approfittando di quella postazione privilegiata avrebbero potuto compiere una carneficina, una sfilza di omicidi che avrebbero potuto sterminare la famiglia D’Amico. La priorità, in quel momento storico, in casa D’Amico, consapevoli della condizione di inferiorità oggettiva, sia sul fronte militare che economico, era quella di limitare i danni. Proprio come sta accadendo ora.
Il supporto di Perrella, seppure latitante, potrebbe concorrere a creare le condizioni propizie per riuscire a stanare il ras del clan dei D’Amico, un obiettivo annunciato in maniera plateale anche di recente con un’incursione finalizzata a rendere ancora più chiare le intenzioni dei rivali. In quest’ottica, l’omicidio di Lucca potrebbe assumere anche un altro significato: in assenza del ras, i rivali potrebbero colpire i parenti, anche quelli estranei alle dinamiche camorristiche. Un fatto confermato dallo stato di isolamento in cui vivono la maggior parte dei membri della famiglia D’Amico.