“Nella vita c’è chi ha la polvere spara, chi non ce l’ha sente le botte”: una frase pubblicata su uno dei tanti profili social di Luigi D.M., il 17enne accusato dell’omicidio di Santo Romano e del tentato omicidio di un altro giovane. Il minore avrebbe impugnato la pistola per “punire” il gruppo di giovani con i quali lui e i suoi amici avevano avuto un diverbio, in seguito a un pestone accidentale che aveva sporcato la scarpa di uno di loro, poco dopo la mezzanotte di sabato 2 novembre, nei pressi dell’ingresso del Municipio di San Sebastiano al Vesuvio.
Una frase che alla luce di quanto accaduto sembra quasi premonitrice, perché quella sera “la polvere” l’aveva lui, il 17enne di Barra, appartenente a quel gruppo di giovanissimi che è solito riunirsi in piazza Bisignano e del quale faceva parte anche Francesco Pio Valda, l’assassino di Francesco Pio Maimone, il 18enne di Pianura anche lui ucciso al culmine di una lite, alla quale era estraneo, per un pestone su una scarpa che aveva indispettito Valda e che per questo ha estratto la pistola che aveva con sé per sparare contro il gruppo del rione Traiano con il quale era nata la disputa. Un proiettile ha colpito Maimone, mentre era seduto al tavolino di uno degli chalet in compagnia degli amici. Santo, invece, si sarebbe avvicinato al minorenne mentre era a bordo della Smart nella quale aveva occultato la pistola, intenzionato a sedare gli animi e placare la lite e, invece, si è ritrovato nella posizione ottimale per essere il primo bersaglio colpito dagli spari.
Un gesto che sintetizza la solida tempra criminale del minorenne che, malgrado la giovane età, secondo quanto riferito da soggetti addentrati nelle dinamiche camorristiche locali, ricoprirebbe un ruolo rilevante nell’ambito di quel gruppo di giovanissimi che si è fondato sui relitti del clan Aprea, in seguito all’uscita di scena dei boss e dei leader storici della cosca solidamente radicata nel quartiere Barra. Un gruppo nel quale è confluito anche Francesco Pio Valda, malgrado i forti contrasti che erano scaturiti tra il clan di famiglia e gli Aprea. Un’alleanza chiacchieratissima negli ambienti camorristici, non solo per questo, ma anche per l’irriverenza manifestata dal gruppo di giovanissimi che fin da subito si è messo in evidenza praticando azioni violente. Bombe, tentati omicidi, futili liti sfociate in omicidi. Luigi D.M. non è altro che uno dei tanti ragazzi della paranza che funge da corredo ai rampolli del clan Aprea, come Emmanuel Aprea. Non a caso, Luigi figura nelle chiacchieratissime immagini pubblicate sui social dal figlio minore di Gennaro Aprea detto ‘o nonno per ufficializzare l’alleanza con Francesco Pio Valda: una serie di scatti che li ritraggono uniti e complici in discoteca, mentre stappano bottiglie di costoso champagne per suggellare quella fratellanza. Un frame da brividi che ha immortalato, in tempi non sospetti, alcuni degli autori degli omicidi più efferati della storia recente. Non a caso, la direttrice di Napolitan.it, la giornalista Luciana Esposito, fu contattata da alcuni parenti di Manuel Aprea, all’indomani dell’omicidio di Francesco Pio Maimone che chiedevano con insistenza la rimozione di quelle foto. Gli Aprea arrivarono a rinnegare quel legame d’amicizia, seppure i due giovani ricoprissero un ruolo apicale all’interno del clan rifondato e parteciparono insieme a un tentato omicidio, poco prima del delitto di Mergellina in cui ha perso la vita una vittima innocente, un ragazzo di appena 19 anni che sognava di diventare un pizzaiolo.
Lo stile di vita e i principi che ispirano le sue azioni appaiono perfettamente allineati con quelli esternati dal gruppo di piazza Bisignano, giovani audaci, ribelli, irriverenti, capaci di manifestare una scellerata predisposizione alla violenza. L’ostentazione del male, in tutte le sue forme, soprattutto all’indomani dei reati più gravi diventa una premessa imprescindibile, al fine di allontanare lo spettro della debolezza insita nel senso di colpa. Nella vita di quei ragazzi non può e non deve esserci spazio per il pentimento e i sentimenti buoni, perché rischiano di minarne la credibilità nell’ambiente malavitoso, ma soprattutto perché rappresentano quel genere di insidie che rischiano di paventare l’ipotesi di un cedimento al cospetto dei magistrati. Sotto quest’aspetto, Luigi ha retto il colpo e ha superato a pieni voti il banco di prova, fornendo agli inquirenti una versione in bilico tra bugie e verità, al fine di alleggerire la sua posizione, senza compromettere quella degli altri complici, guardandosi bene dal rivelare informazioni e notizie che possano minare la libertà di altri componenti della paranza. Così come dimostra la rivelazione di aver acquistato l’arma per 500 euro dai “rom di Scampia”: un’esternazione che nel gergo criminale ricopre un significato ben preciso, a riprova della profonda conoscenza dei codici comportamentali acquisita dal giovane che difficilmente rischierebbe di bruciare un canale utile, in materia di reperimento di armi. Una versione difficile da credere, soprattutto per quanto sia decontestualizzata rispetto alle dinamiche che scandiscono il modello malavitoso barrese. Assai più probabile che quella pistola il 17enne se la sia procurata presso l’armeria ufficiale dei clan operanti nell’area orientale di Napoli e che dai comuni del vesuviano alla zona Porto-San Giovanni a Teduccio offre plurime opportunità in termini di reperimento di armi, sia “sporche” che “pulite”, ovvero già utilizzate per azioni criminose oppure immacolata. Il minorenne mira a sventare il carcere, forte del supporto fornito dall’avvocato che ha immediatamente puntato sull’infermità mentale, facendo leva sulle perizie che in passato hanno già accertato i problemi psichici e psicologici di cui sarebbe affetto e che gli garantirebbero anche un sussidio, seppure dal tenore di vita ostentato sui social non traspare la condizione di un giovane che tira a campare grazie alla pensione d’invalidità civile. Orologi costosi sempre in bella mostra, proprio come il protocollo moderno impone alle giovani leve della camorra, le tute firmate e gli abiti griffati. E poi le scarpe. L’ossessione di quel gruppo che ne colleziona a bizzeffe, ma guai a pestargli i piedi. Un oltraggio che paventa un pericolo che si spinge ben oltre la mera macchia che compromette il candore della scarpa costosa, perché quell’affronto viene evidentemente vissuto da quei giovani come il più intollerabile degli oltraggi, in quanto vissuto come un gesto volto a sminuire quel potere e quella posizione conquistata facendo leva sulle cattive maniere, nell’ambito del contesto malavitoso e che li accredita anche agli occhi dei “capi”, quelli che un tempo tenevano lontani i ragazzini dagli affari dei “grandi” e che ora, invece, si limitano ad osservare da spettatori impassibili le loro gesta criminali.
Agli occhi dei ragazzi come Luigi D.M. e Francesco Pio Valda, riscattare l’onore al cospetto di un pestone su una scarpa, vale più di una vita umana. In entrambi i casi il circuito che funge da contorno alle loro gesta ha ricoperto un ruolo cruciale. Nel caso di Valda, attivandosi per favorirne la fuga dopo l’omicidio di Mergellina, rintanandolo in un nascondiglio sicuro, per poi adoperarsi per occultare arma e vestiti e, soprattutto quelle scarpe macchiate, il movente dell’omicidio.
Nel caso di Luigi, dopo l’omicidio in piazza Capasso a San Sebastiano al Vesuvio, il gruppo lo ha scortato fino alla Riviera di Chiaia per poi mimetizzarsi tra gli avventori, consumare dei drink e concludere la serata, come se nulla fosse. Come se Luigi non si fosse lasciato alle spalle un morto e un ferito. Poi la soffiata via sms per segnalargli che i carabinieri erano andati a casa a cercarlo e quindi il reperimento di un covo in Corso Sirena a Barra, distante quanto basta dalla sua abitazione per sperare di sfuggire all’arresto e al contempo beneficiare dell’appoggio e della connivenza che solo i suoi amici fidati potevano garantirgli, dopo un delitto come quello di cui si è macchiato.
In entrambi i casi, all’indomani dell’omicidio di Francesco Pio e Santo, due giovanissimi intenti a costruire con sudatissimi tasselli il sogno di una vita normale, la rivendicazione dell’omicidio e l’esaltazione del carnefice hanno concorso ad imbruttire oltremodo due storie di per sé già agghiaccianti, aprendo un vistoso squarcio sulle vite dei giovani come Luigi e Francesco Pio.