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Faida di Ponticelli: ecco chi ha ucciso Giulio Fiorentino e perché

Luciana Esposito di Luciana Esposito
28 Ottobre, 2024
in Cronaca, In evidenza
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Il 2021 dei giovani di Ponticelli: senza studio nè lavoro e uccisi dalla camorra

Vincenzo Di Costanzo e Giulio Fiorentino

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Il dolore dei familiari di due delle tante vittime dell’eterna faida di Ponticelli, ben racconta il calvario che frana nelle vite di genitori e fratelli, estranei a quelle logiche, ma comunque costretti a fare i conti con l’affiliazione di un giovane parente.

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Ignari di essere intercettati, i familiari di quelle stesse vittime, hanno concorso a far luce su uno degli agguati più efferati andati in scena a Ponticelli, quello compiuto la sera del 13 marzo del 2021, in pieno lockdown. Ad avere la peggio, Giulio Fiorentino, 28 anni, che ha pagato con la vita all’incirca un anno di affiliazione al clan De Martino, i cosiddetti “XX” del rione Fiat di Ponticelli, mentre Vincenzo Di Costanzo, 23enne all’epoca dei fatti, rimase gravemente ferito. In seguito a un delicato intervento chirurgico, fu necessario asportargli un testicolo. Tuttavia, alla luce dello scenario ricostruito nelle oltre mille pagine dell’ordinanza che di recente ha fatto scattare le manette per 60 affiliati al clan De Micco-De Martino, sappiamo che Di Costanzo può ritenersi un miracolato, in quanto appare evidente che i sicari entrati in azione in via Esopo, nel fortino del clan “XX”, intendevano uccidere entrambi i giovani a bordo di uno scooter. il 23enne guidava il mezzo a bordo del quale c’era Fiorentino, morto poco dopo l’arrivo al pronto soccorso dell’ospedale Villa Betania per la gravità delle ferite riportate. La sorella di Di Costanzo racconta che un proiettile gli aveva sfiorato una tempia, pertanto, se non fosse stato in fuga, trafitto da quel proiettile, sarebbe sicuramente morto anche lui.

Un agguato che maturò al culmine della faida tra i Casella-De Luca Bossa-Minichini e i De Martino, allorquando dopo un periodo trascorso al soldo dell’alleanza, gli “XX” iniziarono a manifestare vivo malcontento per il trattamento economico che gli veniva riservato. Un moto di rivolte che prese il via in un momento ben preciso e in seguito a un evento specifico: nel corso dell’estate del 2020, in seguito alla scarcerazione di “Donna Lina”, alias Carmela Ricci, moglie del boss Francesco De Martino e madre dei tre rampolli del clan. In quel momento storico, i due figli maggiori, Antonio e Giuseppe, erano entrambi reclusi, al pari del padre che tuttavia continuava a impartire ordini e direttive dal carcere, servendosi di un telefono cellulare detenuto illegalmente. Madre e figlio minore, riunirono intorno a loro i giovani del rione, quelli affascinati dal mito del killer “Antonio XX”, galvanizzandoli all’idea di condurre una guerra che li avrebbe portati a conquistare il controllo degli affari illeciti, a discapito dei rivali. Un piano che all’indomani dell’agguato in cui perse la vita Giulio Fiorentino, si rivelò una folle utopia voluta per assecondare il disegno criminale di una spietata famiglia camorristica che si servì di una dozzina di giovanissimi senza esperienza in materia di malavita, gettandoli in pasto a quel feroce destino. Una paranza di giovani utilizzati come scudo dietro il quale proteggere il giovane rampollo di casa De Martino e la sua “mamma-camorra“, a sua volta consapevole di non poter auspicare di beneficiare dell’immunità che la camorra poteva stimare di riservarle in quanto donna, avendo ricoperto un ruolo cruciale nello scenario in cui avvenne l’omicidio di Annunziata D’Amico, reggente dell’omonimo clan operante nel rione Conocal e uccisa da suo figlio Antonio De Martino. Negli anni in cui imperversava la faida tra i D’Amico e i De Micco, “Donna Lina” fu vittima di plurimi pestaggi da parte della reggente del clan rivale, quando si erano incontrate all’esterno del carcere di Santa Maria Capua Vetere per sostenere i colloqui con i rispettivi figli detenuti.

Una donna perfettamente addentrata nelle dinamiche malavitose, Carmela Ricci conosceva le regole del gioco e le ha ben applicate per perseguire il duplice intento di preservare la sua incolumità e quella dell’unico dei suoi tre figli a piede libero, senza però rinunciare alle ambizioni criminali, alimentando le logiche della faida in corso, servendosi di quei giovani mandati allo sbaraglio come delle pedine sagacemente mosse sullo scacchiere camorristico ponticellese.

Una consapevolezza che trapela con grande amarezza dalle parole dei familiari dei due ragazzi, fin dagli istanti immediatamente successivi all’agguato che fece schizzare la tensione alle stelle. Forte anche il rammarico per aver cercato più volte di indurre i rispettivi figli a cambiare vita, senza sortire effetti: Fiorentino e Di Costanzo avevano intrapreso quel vicolo cieco da poco tempo, in uno scenario ben chiaro ai familiari che indicano proprio nella rete allestita dai De Martino la trappola che ha irretito i due giovani. Una premessa che evoca rabbia, non solo perché il clan d’appartenenza si era serviti di loro, ma anche per la replica dei rivali che anziché concentrarsi sulle figure apicali del cartello antagonista, si erano accaniti sulla manovalanza, accontentandosi di colpire soggetti che ricoprivano un ruolo marginale all’interno dell’organizzazione.

Dai racconti che si susseguono in casa Di Costanzo e Fiorentino emerge un retroscena che ben spiega quanto sia stata forte e dirompente la fascinazione che ha indotto i giovani del rione ad assecondare il piano criminale dei De Martino: Salvatore Cardillo aveva un lavoro che gli garantiva uno stipendio mensile pari a 1.800 euro al mese e che lasciò per rispondere alla chiamata alle armi imposta da “Donna Lina” e suo figlio Salvatore.

Dialoghi che concorrono soprattutto a ricostruire il movente e ad indicare gli esecutori materiali dell’agguato. Non a caso, fin da subito, gli inquirenti avevano disposto le intercettazioni, consapevoli che dietro l’omertà manifestata dal superstite Vincenzo Di Costanzo, si celasse la volontà di rispettare le regole imposte dal contesto malavitoso al quale apparteneva, ma che in realtà avesse chiaramente riconosciuto i sicari. Un fatto che trova ampia conferma nelle conversazioni dei giorni successivi.

Nei giorni precedenti all’agguato, Di Costanzo e Fiorentino, insieme ad altri affiliati al clan De Martino, Ciro Uccella e Salvatore Cardillo, si recarono in via Luigi Franciosa, quartier generale del clan Casella per compiere una “stesa”, nell’ambito della quale Giuseppe Righetto detto ‘o blob rimase ferito ad una mano. In quel momento storico, Righetto non ricopriva soltanto il ruolo di reggente del clan Casella, ma era anche la figura apicale dell’alleanza in cui confluivano i Minichini-De Luca Bossa, da quando erano finiti in manette Domenico Amitrano, Umberto e Giuseppe De Luca Bossa.

Motivo per il quale, la replica dei rivali aleggiava fortemente sulla roccaforte dei De Martino che infatti avevano disposto delle sentinelle per presidiare la zona, al fine di intercettare le incursioni dei rivali.

“Quello il guaio è stato fatto dentro al rione…si…e là è stato fatto il guaio !! e quelli dopo….scesero in strada… si misero le pistole addosso…. ed appena entrava qualche auto…gli andavano vicino con le pistole in mano“, esclama uno dei soggetti intercettati facendo riferimento al fatto che nei giorni precedenti all’agguato, i De Martino avevano percosso un giovane a bordo di una Panda, che era solito percorrere le strade del Rione Fiat 
quotidianamente.

Un elemento dal quale trapela la palpabile tensione che albergava nel fortino del clan, ma che soprattutto conferma che Giulio Fiorentino e Vincenzo Di Costanzo erano le vittime designate, destinate ad immolarsi per mettere fine alle ostilità. I killer del clan rivale, infatti, erano riusciti ad accedere senza intoppi nel rione controllato dagli “XX” per compiere l’agguato.

L’identità dei sicari viene rivelata palesemente dai familiari di Di Costanzo, quando i due finiscono in manette: pochi giorni dopo l’agguato, furono arrestati Giuseppe Righetto e Nicola Aulisio, giovane nipote dei Casella. I soggetti intercettati ipotizzavano che i due erano finiti in carcere al culmine di un’indagine lampo volta a far luce sull’omicidio di Giulio Fiorentino, grazie al possibile supporto fornito dai filmati delle videocamere. Invece, i due che comunque venivano indicati con insistenza come gli esecutori materiali dell’agguato del 13 marzo, erano stati tratti in arresto per altri fatti di sangue che si erano verificati nei mesi precedenti, nell’ambito di quella stessa faida che tuttavia, prima di quella sera, non aveva sortito morti.

Nei giorni successivi all’omicidio di Fiorentino, sul quartier generale dei De Martino piombò il vivo timore da parte degli altri affiliati che avevano partecipato al raid in cui rimase ferito Righetto che anche a loro potesse toccare lo stesso destino. Il più allarmato era il superstite della mattanza, Vincenzo Di Costanzo che trascorse la convalescenza a casa della sorella, guardandosi bene dall’acconsentire l’accesso a sconosciuti, a riprova della forte apprensione che gli imponeva di non uscire.

A far luce sulle circostanze in cui è maturato l’omicidio di Giulio Fiorentino hanno concorso le rivelazioni di Antonio Pipolo, ex affiliato ai De Micco-De Martino, oggi collaboratore di giustizia: “La tregua che ho trovato al mio rientro a Napoli è durata ben poco, in quanto successivamente si sono verificati contrasti relativi alla spartizione dei proventi delle piazze di spaccio, tra il cartello De Luca Bossa-Minichini-Casella e i de Martino, motivo per il quale c’è stato l’omicidio di Giulio Fiorentino. Io, Palumbo, Ricci, D’Apice e la famiglia De Martino decidemmo di fare una scissione dai Minichini-De Luca Bossa-Casella perchè non arrivavano più i soldi dalle piazze in quanto i soldi li prendevano i Minichini-De Luca Bossa- Casella. Solo con il Conocal non avevamo rancori.”

Particolarmente interessante un altro retroscena rivelato da Pipolo: pochi giorni prima dell’omicidio di Giulio Fiorentino, la pace fu ripristinata in seguito ad un incontro chiarificatore avvenuto a Portici, dove la disputa in atto a Ponticelli fu sottoposta al vaglio dei Mazzarella. In quel frangente, questi ultimi appoggiarono i De Martino per recuperare i soldi, in quanto avevano provveduto loro a fornire la droga che avevano venduto, i cui proventi erano stati incassati dai clan alleati. La mediazione dei Mazzarella si rese necessaria anche per evitare altre azioni di sangue. L’accordo fu che l’alleanza s’impegnava a versare nelle casse dei De Martino la percentuale che avevano prelevato al posto loro. Seppure Luigi Austero non fosse d’accordo, acconsentì al patto che tuttavia durò pochi giorni, fino all’arresto di Giuseppe Righetto e Nicola Aulisio che, come detto, avvenne esattamente una settimana dopo l’omicidio di Giulio Fiorentino.

Le dichiarazioni rese dall’ex affiliato alla magistratura, di contro, introducono uno scenario che lascia dedurre che l’omicidio di Giulio Fiorentino fosse il prezzo da pagare per ripristinare la pace tra i clan in conflitto. Alla luce di quanto emerso di recente, è più corretto affermare che il clan rivale auspicava di uccidere entrambi gli affiliati ai De Martino coinvolti nell’agguato e che Di Costanzo è sopravvissuto per motivazioni che esulano dalla volontà dei killer.

Un’ipotesi rafforzata da un altro dettaglio fornito da Pipolo: “Giovanni Palumbo e Ciro Ricci o subito prima o subito dopo l’omicidio mi dissero che Salvatore De Martino, nel corso di un summit, tenutosi quando ancora c’era la tregua, a cui avevano partecipato esponenti del clan Casella, sottolineò che in ogni caso, lui teneva particolarmente ad Alessio Velotti, il quale non doveva essere toccato in nessun caso, in particolare disse: “toccatemi tutti, tranne Alessio Velotti.”

In effetti, dopo l’omicidio del 29enne, così come ricostruito da Pipolo, subentrò un momento di stasi: “Dopo l’omicidio di Fiorentino, vi fu una sorta di tregua tra noi e i De Luca Bossa, tregua che tuttavia si interruppe quando apprendemmo che stavano organizzando un omicidio nei nostri confronti. Luca La Penna fu tratto in arresto nel momento in cui stava portando un’auto rubata nel Lotto 6, nei pressi dell’abitazione di “gettone” che doveva fare da punto d’appoggio per l’azione. Capimmo quindi che stavano organizzando un omicidio nei nostri confronti. Ci fu un’accesa discussione telefonica tra Giovanni Palumbo e Luigi Austero che, per ritorsione, diede fuoco all’auto di Francesco Clienti, suocero di Palumbo ed affiliato al clan De Micco.”

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