Un retroscena non da poco, quello emerso dai verbali in cui sono riportate le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonio Pipolo, affiliato al clan De Micco-De Martino, passato dalla parte dello Stato al culmine di una serie di concitati eventi che resero ancora più rovente l’estate 2022 all’ombra del Vesuvio. Pipolo si consegnò spontaneamente in Procura, dopo aver compiuto un duplice omicidio, quello di Carlo Esposito, affiliato al suo stesso clan e della vittima innocente Antimo Imperatore. Il 52enne stava montando una zanzariera, quando Pipolo fece irruzione nell’appartamento del rione Fiat in cui viveva Esposito, unico e reale obiettivo dell’agguato.
Pipolo ha spiegato ai magistrati di aver appreso da una figura apicale del clan Mazzarella di una riunione dei De Micco, unitamente ad esponenti dei De Martino, dei Mazzarella e dei De Luca Bossa, in cui si era deliberata la sua uccisione, sospettando una sua possibile collaborazione e che era stato deciso che l’omicidio avvenisse simulando una rissa in discoteca.
Un espediente voluto per evitare che suo cugino, Ivan Ciro D’Apice, anch’egli affiliato allo stesso clan, potesse immaginare che il suo omicidio fosse sfrutto di un’epurazione interna.
“Al summit però ha partecipato una persona che mi ha salvato la vita, il mio angelo custode, che si chiama Sartori Gesualdo, detto Aldo che fa parte del clan D’Amico-Mazzarella. In particolare, Sartori ha mandato nel locale discoteca, la sera di sabato, una ragazza che mi ha fatto capire
che dovevo allontanarmi.”
Una dichiarazione clamorosa, quella del collaboratore e che qualora trovasse riscontro in chiave investigativa, lascerebbe intravedere un equilibrio ingarbugliato tra i De Micco-Mazzarella. Un fatto che potrebbe trovare una spiegazione nel legame affettivo che intercorreva tra Pipolo e Sartori che avevano condiviso un periodo di detenzione nello stesso carcere, ma che al contempo lascia emergere un retroscena inaspettato: una delle figure apicali del clan Mazzarella, si sarebbe attivata personalmente per mandare in fumo i piani degli alleati, quegli stessi De Micco-De Martino che vedevano nell’instabilità di Pipolo una concreta minaccia da abbattere per scongiurare il pericolo che potesse accadere quello che in realtà si è poi verificato, ovvero, che decidesse di collaborare con la giustizia.
Le circostanze descritte da Pipolo aprono uno squarcio su uno dei momenti più concitati vissuti dal clan De Micco, quello che nell’autunno del 2021 vide i “bodo” mettere fine alla faida con i De Luca Bossa compiendo un omicidio eclatante, quello di Carmine D’Onofrio, il 23enne figlio naturale di Giuseppe De Luca Bossa, assassinato sotto casa davanti agli occhi attoniti della compagna all’ottavo mese di gravidanza. Una leadership che il boss ha vissuto in stato di libertà solo per pochi mesi, per poi finire nuovamente in carcere, appena un anno dopo dal ritorno a Ponticelli. Marco De Micco, nell’aprile del 2022, finì in manette insieme agli altri affiliati che secondo gli inquirenti hanno partecipato all’omicidio di D’Onofrio: Giovanni Palumbo, Ferdinando Viscovo, Ciro Ricci, Giuseppe Russo junior. Fin da subito, il boss Marco De Micco ha manifestato il forte sentore che Pipolo potesse essere l’anello debole che rischiava di compromettere irrimediabilmente la situazione e per questo auspicava che potesse bastare guardarlo negli occhi, durante i colloqui in videochiamata, grazie alla disponibilità di un telefono illegalmente detenuto in carcere dal boss. Marco “bodo” si è immediatamente adoperato per tentare di cambiare il corso degli eventi, cercando di esercitare un’ascendente in grado di imporre omertà e fedeltà al clan da parte di Pipolo, ma quella non era l’unica insidia che rischiava di minare la stabilità interna e non solo di quella cosca che aveva riportato alla ribalta in poco tempo e senza particolari sforzi.
I dissidi con i De Martino, sempre più propensi ad avanzare pretese economiche, mentre non facevano nulla per celare il malcontento che scaturiva dalla decisione del boss Marco de Micco di collocare il ras della droga Ciro Naturale alla reggenza del clan, in seguito al suo arresto. Pochi mesi dopo, in seguito alla scarcerazione di Christian Marfella, i De Luca Bossa tornarono a marcare le strade del quartiere, galvanizzati anche dalla consapevolezza di disporre di una motivazione in più per colpire i rivali: vendicare la morte di Carmine D’Onofrio.
Una delle motivazioni per le quali il pentimento di Pipolo era particolarmente temuto è proprio riconducibile a una serie di circostanze legate all’omicidio del figlio del boss dei De Luca Bossa. Non solo perché Pipolo – come effettivamente è accaduto – poteva essere in grado di riferire informazioni utili a chiarire e confermare i ruoli ricoperti nell’agguato dai vari soggetti tratti in arresto, andando a consolidare il quadro accusatorio: furono soprattutto i rumors legati al suo possibile coinvolgimento all’agguato a creare il clima che ha minato i rapporti tra l’ex affiliato e il clan De Micco. Nel quartiere, fin dagli istanti successivi al blitz che fece scattare le manette per il boss Marco De Micco e gli altri quattro affiliati, circolava con insistenza una voce secondo la quale proprio Pipolo fosse stato “graziato”, riuscendo a scampare l’arresto seppure avesse partecipato all’omicidio. Seppure non vi sia alcuna prova concreta a supporto di questa tesi, quella suggestione ha inciso pesantemente sulla situazione, contribuendo a gettare un’ombra di incertezze sulla figura di Pipolo. Fino a prima del suo pentimento, gli imputati sul cui capo pende l’accusa di omicidio, auspicavano nella bravura dei loro avvocati difensori per riuscire addirittura ad essere scagionati dalle accuse, facendo leva su un’errata interpretazione dei dialoghi intercettati. Le dichiarazioni di Pipolo hanno concorso ad aggravare la loro posizione, ridimensionandone nettamente le speranze.
E’ in questo scenario che va contestualizzato e collocato il timore che Pipolo potesse pentirsi e la sua effettiva volontà di voltare le spalle alle regole del “sistema”. Quello rivelato da Pipolo sarebbe un retroscena clamoroso, qualora effettivamente Sartori avesse mandato in fumo il piano ordito dagli alleati per scongiurare quel pericolo ed evitare al clan di subire le conseguenze di quel temuto pentimento, in un momento storico in cui i De Micco erano in difficoltà oggettiva, in seguito all’arresto del boss e alla luce delle plurime insidie che rischiavano di minare l’egemonia del clan.