È diventato subito virale il racconto di un’infermiera dell’ospedale Santobono di Napoli in servizio durante la serata di lunedì 22 luglio, quando all’ospedale pediatrico sono stati trasportati d’urgenza i bambini rimasti feriti nel crollo di un ballatoio al terzo piano della Vela celeste di Scampia.
Di seguito il racconto integrale pubblicato dalla pagina “Nessuno tocchi Ippocrate”:
“Stasera mi rompo proprio di andare a fare sta notte.
Erano poco dopo le dieci, una macchina arriva all’impazzata, correndo, il clacson suonava imperterrito ancora prima di varcare il cancello dell’ospedale, io e Federica ci guardiamo in faccia e alziamo gli occhi al cielo “ Sarà la solita febbre da poche ore”, indossiamo i guanti, apriamo la porta del pronto soccorso per uscire fuori a controllare.
“Codice rosso, codice rosso, è caduto un ballatoio della vela celeste stanno un sacco di bambini” urlano i due uomini che portavano le due bambine, io e Federica le guardiamo in volto, sporche di terra e calcinacci, lacrime e sangue, la paura negli occhi, suoniamo il pulsante di emergenza senza conoscere nemmeno la gravità della situazione, le portiamo nella stanza dei codici rossi, corrono tutti i miei colleghi, medici e infermieri, come una mandria ci siamo riversati tutti sulle piccole, parametri, accesso venoso, farmaci, ossigeno, sangue.
Mi giro verso uno dei due uomini che avevano portato le bambine “papà vieni con me dimmi come si chiamano così le registriamo”, il mio sangue si è gelato e un brivido ha trapassato il mio corpo “ io non sono il padre, non so nemmeno chi sono, le abbiamo prese da sotto le macerie, ce ne stanno altri, non so nemmeno se i genitori sono vivi”, sussulto, mi guardo intorno, i miei colleghi erano tutti nei codici rossi, arriva un’altra macchina, suonando all’impazzata come quella di prima.
Corro fuori, un signore mi aiuta a tirare fuori M., il suo femore era totalmente staccato dal bacino, un frammento era quasi esposto, la portiamo insieme all’interno “prendete una barella”, la appoggio sopra e nemmeno il tempo di girarmi eccole arrivare tutte, una dietro l’altra, sette bambine terrorizzate, sporche, bagnate, insanguinate.
Mai in cinque anni di pronto soccorso mi sono sentita più persa, più inerme, più vuota, era tutto così surreale.
Non dimenticherò mai quei volti ricoperti di paura, le lacrime, lo shock sul viso di chi era presente e ha visto tutto, che senza titubare ha preso quelle bambine dalle macerie e le ha portate da noi, senza nemmeno sapere chi fossero.
“Chi sono queste bambine? Come facciamo a registrarle, nessuno sa i nomi, nessuno sa chi siano” Con un pennarello indelebile scriviamo dei grandi numeri sui loro toraci, per distinguerle, per poter capire cosa è stato fatto a chi, sembra una scena di un episodio di grey’s anatomy, solo che in grey’s anatomy lo sai che alla fine tutto si risolve nell’arco della puntata.
Chiamo il mio reperibile dipartimentale, “dottoressa è crollato un ballatoio ci sono 7 codici rossi, è una maxi emergenza, noi non ce la facciamo” e in un attimo eccoli arrivare tutti, i miei colleghi dalla rianimazione, pediatria d’urgenza e chirurgia, pediatri dai reparti, neurochirurghi e rianimatori reperibili da casa, primari, ecografisti correre durante la notte con un unico scopo, aiutare.
Ho visto i miei colleghi del pronto soccorso spendere tutte le loro forze per essere rapidi, professionali, preparati e impeccabili nonostante il caos, colleghi degli altri reparti, infermieri, oss e medici prodigarsi per un’emergenza che non era la loro “ perché se ci siete voi ci siamo tutti”, ho visto le guardie giurate che avevano finito il turno trattenersi oltre l’orario a pulire le bambine dai calcinacci e a spostare le barelle per fare spazio, ho visto specializzandi accanto alle bambine vigili che le accarezzavano e le rasserenavano nei limiti del possibile.
Sto cercando di mettere in ordine tutti i pensieri, di ricostruire nella mia mente le scene di quella notte infernale, mi ricordo di questa zia educata e compita, la zia di tutte le bambine, che si spostava tra una barella e l’altra per stare vicino un po’ a tutte, di quell’uomo biondo che tremava mantenendo la mano alla sua figlia più piccola e le urla strazianti di dolore alla scoperta della più brutta delle notizie.
Mi ricordo gli occhi di quella patanella di Nunzia che mi ha stretto la mano e mi ha detto “non ti preoccupare io sto bene, dove sta mia sorella?”, Nunzia amore mio, tu mi hai trafitto il cuore.
Mi ricordo le lacrime sul volto dei miei colleghi, la notte passata ad aggiornare la pagina delle notizie, le ricerche fatte insieme sulle vele di Scampia e non riesco a togliermi questi pensieri dalla testa.
In tutta questa storia non ci sono vincitori e non ci sono eroi ma solo in pochi possono capire come io sia orgogliosa delle persone che lavorano con me e che erano presenti in quella notte da incubo, uomini e donne professionali, competenti, preparati, precisi, svelti, compassionevoli, dal cuore immenso ed io non ho parole per descrivere quanto io vi stimi e sia fiera della nostra grande famiglia.
Se solo penso a tutto quello che è successo comincio a piangere come se lo stessi vivendo ancora.
Io non lo so quanto dolore è in grado di sopportare l’animo umano, so solo che questa vicenda mi ha fatto scoprire un limite che non pensavo esistesse.
Vorrei così tanto poter fare di più, poter essere migliore, poter avere le capacità di impedire che queste tragedie avvengano ma mi rendo conto che di fronte a tutto questo noi siamo solo dei granelli di sabbia e quindi ognuno di noi dovrebbe impegnarsi per dare sempre il massimo possibile, anche quando pensa che il massimo sia stato già raggiunto.
Non sono troppo poetica quando dico che il mio lavoro è una missione e non immaginerei mai di svolgerla con persone migliori di quelle che sono accanto a me ogni giorno, quindi grazie ad ognuno di voi perché mi fate scoprire, in ogni turno, che a volte anche un granello di sabbia può fare una differenza enorme.”
“Una infermiera del pronto soccorso”