“Cambia il sangue, ma io e i fratelli D’Amico siamo e saremo sempre una cosa sola e anche se mi sono pentito, mi vogliono bene lo stesso, anche se dal punto di vista malavitoso non accettano la mia scelta”: inizia così la lunga conversazione tra la giornalista Luciana Esposito e Giovanni Favarolo, ex figura di spicco del clan D’Amico e ormai anche ex collaboratore di giustizia, arrestato lo scorso ottobre, all’incirca un mese dopo la lunfa telefonata intercorsa con la direttrice di Napolitan.it.
Una conversazione durata diverse ore, nell’ambito della quale Favarolo ha ricostruito scenari passati e recenti. Dalle sue trapela tutto l’affetto e il rispetto incondizionato che non ha mai smesso di tributare alle figure apicali del clan del quale è stato un perno portante: Antonio e Giuseppe D’Amico, i cosiddetti “fraulella” del rione Conocal di Ponticelli, attualmente detenuti. Proprio soffermandosi su Antonio D’Amico, Favarolo afferma che “anche dal carcere Tonino “fraulella” è sempre un pilastro. E’ lui che impartisce strategie e direttive. Non ha mai smesso di comandare.”
Il boss Antonio D’Amico non ha mai smesso di tessere alleanze e di impartire strategie e direttive, anche dalla cella in cui è recluso: un dato di fatto che trapela nitidamente dalle parole dell’ex numero uno del clan dei “fraulella” che ha speso grandi parole di stima ed elogio per i fratelli D’Amico. Facendo riferimento alle minacce e alle intimidazioni indirizzate alla giornalista Luciana Esposito da parte di soggetti riconducibili alla stessa organizzazione, Favarolo l’ha esortata a non avere timore perché il boss Antonio D’Amico, camorrista vecchio stampo e legato a quel famoso “codice d’onore” che vieta di fare del male a donne e bambini, mai potrebbe legittimare azioni violente finalizzate a contrastare il lavoro di una giornalista. Dinamiche e ideologie che sarebbero severamente condannate da Tonino fraulella che quando tornerà in libertà, secondo Favarolo, rimetterà le cose a posto anche sotto quest’aspetto, consapevole di quanto sia scomoda la forma di attenzione che le azioni rivolte a un giornalista siano in grado di evocare.
Favarolo sostiene che, a parti invertite, il boss Antonio D’Amico non avrebbe mai messo la firma su un omicidio analogo a quello compiuto dai De Micco in cui ha perso la vita una donna, ma non una donna qualunque: la donna-boss di casa D’Amico, Annunziata. Una sorella amata, venerata, sia da Antonio che da Giuseppe. “L’omicidio di una donna, come quello in cui ha perso la vita Annunziata, per i “vecchi uomini d’onore” è un fatto impensabile e inaccettabile. Anche solo per una questione di rispetto nei riguardi di un boss della caratura di Antonio D’Amico, non andava compiuto. Proprio per questo motivo, quell’omicidio non è stato approvato da molte altre figure di spicco della camorra napoletana. I fratelli sapevano che se fosse andata in carcere, Annunziata non si sarebbe mai pentita per lo stesso principio per il quale anche loro non hanno mai preso in considerazione l’idea di collaborare: l’incolumità delle sorelle.”
Parla con cognizione di causa, Giovanni Favarolo, perché i fratelli D’Amico li conosce bene: cresciuto senza genitori è stato allevato e indottrinato da loro nel rispetto di quel codice d’onore che i “fraulella” non hanno mai rinnegato: “quando uscirà dal carcere, Antonio D’Amico non vorrà essere festeggiato con i fuochi d’artificio, né tantomeno pretenderà una festa in pompa magna. E’ un boss vecchio stampo, mira a beneficiare di una certa discrezione e poi è abituato a parlare con i fatti. Probabilmente chiederà a un corteo di moto di andare a prenderlo per consegnare un’immagine molto più inquietante e suggestiva ai rivali, ma sono sicuro che quando tornerà a Ponticelli, scoppierà l’inferno, farà una strage, questo è sicuro, ma soprattutto riporterà nel suo rione l’ordine stravolto dai suoi successori: niente estorsioni ai commercianti, mai più famiglie cacciate dalle loro case. Il clan D’Amico capeggiato dai veri boss mirava a fare i soldi concentrandosi sul business della droga e le grandi estorsioni, quindi cantieri, imprenditori. Quella inscenata dai suoi successori non merita neanche di definirsi camorra e sicuramente stanno agendo senza la sua autorizzazione. Per Tonino fraulella era fondamentale circondarsi di persone che gli erano riconoscenti e gli volevano bene: è la base sulla quale fondare un impero destinato a durare nel tempo.”
Un fiume in piena che racconta e rivela anche le tattiche adottate dai boss per evitare di incassare pene severe: “si accusano i reati per beccare dai venti ai trent’anni e sventare condanne più pesanti, grazie all’ammissione di colpa. I reati si pagano, questo un camorrista lo sa. Così come quando sanno di essere prossimi all’arresto e hanno già il morto addosso (hanno già compiuto un omicidio, ndr), non si fanno scrupoli a fare altri omicidi perchè non hanno più niente da perdere.”