Il 23 novembre del 1993 a Villabate cominciava il calvario di Giuseppe Di Matteo, il figlio 12enne del pentito di Altofonte Santino Di Matteo. Quel giorno il bambino fu rapito da Cosa Nostra su ordine di Giovanni Brusca.
Un rapimento durato 779 giorni, in condizioni di impietosa segregazione; poi, l’epilogo: Giovanni Brusca ne dispone l’uccisione. Giuseppe, all’età di 15 anni, fu prima strangolato e poi sciolto nell’acido.
Secondo i mafiosi, Giuseppe Di Matteo era lo strumento con cui convincere il padre “pentito” a ritrattare. Santino, che aveva firmato la strage di Capaci, invece, continuò a collaborare con la giustizia, seppure così facendo sancì la condanna a morte di suo figlio. Un verdetto emesso dal tribunale di Cosa Nostra in un freddo pomeriggio di gennaio, al culmine di un incubo che per il piccolo era iniziarto quasi due anni e mezzo prima, con un sequestro-trappola.
Giuseppe non vedeva il padre Santino da cinque mesi, si trovava lontano dalla Sicilia per motivi di sicurezza. Era un bambino a cui mancava il papà. Per questo quando gli uomini di Giovanni Brusca, fingendosi agenti della Dia, si presentarono al maneggio promettendogli di portarlo nella località segreta dove si trovava il genitore, si lasciò convincere. Quegli uomini non erano poliziotti arrivati con il sorriso sulle labbra, ma i suoi aguzzini.
«Agli occhi del ragazzo siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi. (…)» disse Gaspare Spatuzza, che prese parte al rapimento.
La famiglia cercò notizie del figlio in tutti gli ospedali palermitani ma quando, il 1º dicembre 1993, un messaggio su un biglietto giunse alla famiglia con scritto “Tappaci la bocca” e due foto del ragazzo che teneva in mano un quotidiano del 29 novembre 1993, fu chiaro che il rapimento era finalizzato a spingere Santino Di Matteo a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci e sull’uccisione dell’esattore Ignazio Salvo.
Passano molti giorni, la famiglia Di Matteo, vicina ai Corleonesi, cerca, invano, di risolvere la questione “a modo loro”, fino al 14 dicembre 1993, quando mamma Francesca si presenta alle forze dell’ordine per denunciare la scomparsa del figlio. Nei 25 mesi di prigionia, il bambino venne spostato più volte: da Palermo ad Agrigento, da Trapani a San Giuseppe Jato, patria del boss che aveva ordinato il rapimento. Nel casolare-bunker costruito nelle campagne in contrada Giambascio rimase per 180 giorni fino alla sua morte.
Era l’11 gennaio 1996. Quel giorno Giovanni Brusca fu condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo e il piccolo fu strangolato e sciolto nell’acido. Non aveva colpa, se non quella di avere un padre che aveva deciso di collaborare con la giustizia.
Gli “uomini d’onore” rispettavano i bambini per questo motivo l’ordine iniziale fu quello di uccidere il bambino, diventato adolescente, quando avrebbe compiuto 18 anni, ma tutto cambiò l’11 gennaio. U verru (il porco, in siciliano), tanto gelido da essere scelto per azionare il detonatore della bomba nella Strage di Capaci in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo scopre in tv di essere stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo. Sentenza scritta senza la testimonianza di Santino Di Matteo che non sapeva quasi niente di quel delitto.
“Alliberateve de lu cagnuleddu”. Sbarazzatevi del cane, disse il boss Giovanni Brusca, la cui fama criminale gli aveva permesso di conquistare il soprannome di scannacristiani. 779 giorni dopo il sequestro, il piccolo fu strangolato con una corda perché “papà aveva fatto il cornuto”. Indebolito dalla lunghissima prigionia morì subito. Il suo corpo o quel che ne restava non venne mai trovato. Era stato sciolto nell’acido per non lasciare tracce né una tomba alla famiglia su cui piangere. Avrebbe compiuto quindici anni il 19 gennaio.
Nel corso di un interrogatorio, Matteo Messina Denaro ha ammesso il sequestro ma non di averne ordinato la morte. Il boss ha scaricato tutte le colpe su Giovanni Brusca.