Presenta tutti i tratti peculiari della “favola moderna” l’esperienza maturata da insegnante nel carcere di Spoleto da Lidia Antonini, docente di storia dell’arte che ha incrociato decine di detenuti, reclusi in un istituto penitenziario di alta sicurezza, ma che ai suoi occhi erano solo alunni con i quali avviare un percorso didattico capace di appassionarli alla bellezza dell’arte e della cultura, auspicando che potesse concorrere ad allontanarli dalle brutture della criminalità.
Un auspicio che ha trovato riscontro nella realtà e che ha concorso a determinare un pentimento eccellente, quello di Ciro Sarno: ‘o sindaco di Ponticelli, il boss partito dal rione De Gasperi e che per circa trent’anni ha tenuto sotto scacco mezza Napoli e provincia.
Entrato in carcere nelle temibili vesti di ‘o sindaco, leader maximo della camorra che non aveva neanche conseguito la licenza media e uscito nelle inaspettate vesti di Ciro, un uomo che ha sentito il bisogno non solo di prendere le distanze dal boss che è stato, ma di distruggerlo a suon di dichiarazioni rese alla magistratura che hanno decretato la fine di un’era camorristica. All’interno del carcere di Spoleto, il detenuto Ciro Sarno diventa soprattutto un alunno modello che si è visto negare da un cavillo burocratico la gioia di laurearsi in storia dell’arte con il massimo dei voti.
Com’è successo che un boss di camorra si sia appassionato alla scuola a tal punto da decidere di pentirsi?
“È accaduto quello che si verifica sempre quando la scuola funziona. – spiega la Prof. Lidia Antonini – A mio avviso la scuola, la cultura hanno avuto la capacità di destrutturare e ristrutturare una persona. Non parlo solo di Ciro Sarno, ma di tutti gli allievi che hanno seguito il suo stesso percorso. Lui aveva delle qualità peculiari: intelligenza pronta e versatile, acume, carisma e anche uno spiccato senso dell’ironia che lo differenziavano dagli altri e che gli hanno consentito di eccellere anche nel percorso scolastico.
Era portato per la storia dell’arte, sembrava uno storico mancato, amava la materia malgrado non avesse nessuna base. Tant’è vero che si iscrisse anche all’università dopo aver frequentato l’istituto d’arte. I suoi docenti universitari lo descrivevano come uno studente brillante. Inoltre, era una persona che sedava vari conflitti, all’interno delle classi e non solo.
Quando si verificavano dei problemi, gli stessi agenti lo interpellavano per sedare anche le situazioni più spinose. Era un punto di riferimento cruciale per l’intera comunità carceraria, oltre che un supporto economico per i detenuti indigenti. Ebbi modo di apprendere che provvedeva a fornire indumenti, scarpe, effetti personali ai detenuti più poveri e non lo faceva per creare proseliti, aiutava anche quelli che non conosceva affatto, ma che sapeva essere in difficoltà. Un uomo molto generoso.”
Qual è l’approccio migliore che un’insegnante deve adottare con quel tipo di alunni?
“La forza sta nel capire che davanti a te hai delle persone; quindi, abbandonare i pregiudizi e capire che è opportuno accantonare la didattica tradizionale per prediligere dei percorsi che siano aderenti al tipo di studente che ti trovi di fronte. Avevo classi formate da siciliani, pugliesi e napoletani di età compresa tra i 20 e gli 80 anni. E in quelle circostanze ho capito che dovevo tralasciare i parametri delle lezioni standard per capire come consentire all’ottantenne di approcciare alla storia dell’arte nel migliore dei modi.
Li ho sempre vissuti e trattati come semplici alunni ai quali impartire degli insegnamenti, tant’è vero che solo dopo ho capito chi fosse Ciro Sarno, non lo immaginavo. Parliamo di detenuti in un carcere di massima sicurezza, quindi arrestati per reati di tipo associativo e se mi fossi soffermata a chiedermi chi avessi davanti e perché si trovavano lì, mi sarei lasciata condizionare dal pregiudizio, la cosa migliore era concentrarsi sull’alunno in quanto tale e così non potevo che apprezzarne le qualità che sono emerse in molti di loro, tra i quali sicuramente Ciro Sarno ha saputo mettersi in evidenza.”
La prof.ssa Antonini si è fatta promotrice di un modello didattico che si è esteso ben oltre le tre ore canoniche di lezioni settimanali: “abbiamo lavorato a vari progetti, tra i quali quello della pista ciclabile e delle fontane di Spoleto, li ho letteralmente inventati io entrambi. Furono due bei percorsi, oltre che molto impegnativi. Non potendo uscire, abbiamo introdotto una marea di materiale e di questo ringrazio ancora il direttore Ernesto Padovani che ci ha accordato una fiducia totale, consentendoci di portare perfino mappe del territorio all’interno di un supercarcere, malgrado mostrassero tutte le campagne che circondano la struttura penitenziaria. Direi che si è assunto una responsabilità notevole, però ne è valsa la pena. Abbiamo realizzato una pubblicazione sulle fontane di Spoleto, partendo dalla ricerca scolastica. I detenuti hanno imparato ad acquisire il metodo, partendo dallo studio dell’archivio per consultare i documenti storici, per poi passare allo studio dei documenti nel loro linguaggio originale e Ciro Sarno era uno dei trascinatori, guidava e coordinava il gruppo. Hanno capito perfettamente il metodo, anche affrontando un percorso di studio individuale, oltre le tre ore settimanali di lezione in classe e questo ci consentì di realizzare un cd e una pubblicazione che hanno avuto un ottimo esito, tanto che da quella pubblicazione hanno tratto un dépliant turistico. All’interno di questo tipo di progetti Ciro Sarno ha avuto modo di misurarsi con delle dinamiche completamente diverse rispetto a quelle che aveva vissuto da quando era nato.”
C’è stato qualche segnale che ha lasciato presagire che Ciro Sarno si sarebbe pentito?
“Non lo immaginavo, ma avevo capito che era cambiato, era migliorato, aveva maturato altre categorie di giudizio. Non parlava mai della vita di fuori. Il primo giorno che ci siamo conosciuti mi disse che non era in carcere per fatti diretti di sangue, quindi che non aveva mai ucciso. Faceva battute, vaghe allusioni sulla vita malavitosa, ma mi raccontava anche che a Natale, quando era in carcere, la moglie provvedeva a comprare cibo da donare alle famiglie più povere. Sapevo che lo chiamavano ‘o sindaco, all’inizio era molto più spavaldo, poi dopo ho capito che era assai più potente di come appariva, ma io ho conosciuto l’uomo Ciro Sarno, non il boss.
Avevo avuto modo di appurare un cambiamento, vedevo una persona diversa che parlava del valore della scuola, dell’istruzione e della cultura come se fossero fattori fondamentali nella formazione di un individuo. Era sinceramente convinto di questo, non lo diceva perché mirava ad usufruire dei benefici. In carcere passa il messaggio che la scuola sia funzionale a questo tipo di logiche, mentre lui aveva sviluppato un’etica notevole. A un certo punto non l’ho più visto. La scuola è finita a giugno, quando sono rientrata a settembre, lui non c’era. Nel frattempo, si era liberata una cattedra nel liceo classico dove tuttora insegno; quindi, poco dopo la mia esperienza in carcere è terminata.”
Un percorso scolastico brillante quello avviato in carcere dall’allievo Ciro Sarno e terminato tra i banchi dell’università, seppure gli sia stata negata la possibilità di laurearsi: “non si è potuto laureare perché non era in regola con il pagamento delle tasse. Nessuno si è assunto la responsabilità di capire in che modo potesse risolversi la faccenda, hanno lasciato che la burocrazia facesse il suo corso. Siccome è stato un po’ di tempo senza essere iscritto, quando si è riscritto c’erano un sacco di soldi da pagare. Nessuno ha pensato che nel percorso che aveva avviato, quella tappa era fondamentale. Gli altri detenuti, suoi compagni universitari, si sono laureati tutti, tranne lui che era il più bravo. Una gratificazione negata da un cavillo burocratico.”
Da docente, cosa ha imparato da questa esperienza?
“Amo molto gli stimoli, le novità. Quando mi è stato proposto di insegnare in carcere, non ho esitato ad accettare, senza paura né riserve, ma con tanta curiosità. Un’esperienza durata 10 anni, vissuta da insegnante e coordinatrice, mantenendo anche le ore nelle classi esterne con i ragazzi, premessa, a mio avviso, fondamentale per bilanciare ed evitare il pericolo di perdere il senso della realtà. Sono stata benissimo e ho imparato tanto professionalmente. Un’esperienza che mi ha consentito anche di sviluppare tecniche didattiche diverse. Ad esempio, quando assegnavo dei compiti scritti, evitavo di correggere gli errori grammaticali e per coinvolgere gli studenti più anziani, chiedevo ai parenti di mandare cartoline dei monumenti delle loro città compatibili per stile e periodo storico a quelli delle grandi città che studiavamo.
Ritengo che la scuola in carcere sia fondamentale, un’esperienza che ti permette di vedere materialmente come la scuola possa modificare la vita di una persona, oltre che la persona stessa. Quello che ho visto in carcere mi ha formato come docente e quello che ho imparato durante quegli anni mi è tornato utile anche con i ragazzi del liceo. Mi ha consentito di acquisire delle certezze che altri colleghi non hanno.”
Da docente del carcere si è assunta anche una responsabilità importante accompagnando i detenuti all’esterno: “Tra docenti e alunni si instaura un rapporto di fiducia importante, sapevo di poterlo fare perché ero certa che non mi avrebbero mai messo nei guai. Le possibilità che potessero fuggire erano pari a zero e infatti non si è mai verificato nessun episodio spiacevole.
In particolare, il progetto dedicato alle fontane di Spoleto fece sì che alcuni detenuti ebbero il permesso di uscire dal carcere. In particolare, un detenuto sardo ergastolano che non usciva da 20 anni. Ricordo che non faceva altro che lavarsi le mani sotto l’acqua corrente delle fontane, perché gli ricordava la Sardegna. Fu una scena che mi colpì tanto.
Ricordo che una volta con una classe di studenti esterni, andammo in gita a Roma e mi fu concessa l’autorizzazione per portare con noi un ragazzo poco più che ventenne, seppure detenuto per reati non gravissimi. Partimmo in treno, avevamo l’obbligo di farlo firmare alle 12 al commissariato e con tutta la classe ci recammo lì. Durante il tragitto mi telefonò un giornalista del Messaggero che chiese di incontrarci per un’intervista: l’articolo, con tanto di foto di gruppo sotto il balcone di Mussolini, uscì in prima pagina il giorno dopo. Fu un’emozione indescrivibile.”