Dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Tommaso Schisa continuano ad emergere dettagli preziosi, utili a ricostruire i principali intrecci camorristici che si sono avvicendati a Ponticelli negli ultimi anni. Figlio dell’ex Sarno Roberto Schisa, condannato all’ergastolo al pari di sua moglie Luisa De Stefano, Tommaso è cresciuto in un’era camorristica assai concitata, tra le rovine del rione De Gasperi che da fortino del clan Sarno si trasformò in un angusto e degradato contesto, complice il vortice di arresti scaturito dal pentimento delle figure apicali dell’organizzazione, capeggiate proprio dai fratelli Sarno, nonchè boss fondatori dell’organizzazione che dominò il territorio per circa trent’anni. Decine di famiglie d’onore si videro così private della figura di riferimento maschile. Non a caso, il giovane Schisa è stato allevato da un’austera mamma-camorra che alla prima occasione utile ha ricoperto il ruolo di reggente del clan di famiglia, le temute “pazzignane” che hanno ricoperto un ruolo di rilievo nell’ambito del contesto malavitoso locale per un arco temporale relativamente breve, ma che ha ugualmente sancito un punto di non ritorno, soprattutto per le tante morti innocenti scaturite dalle logiche imposte dalle lady-camorra.
Forti del supporto garantito dai vecchi clan dell’area orientale di Napoli, ugualmente rimaneggiati dalle dichiarazioni rese dai fratelli Sarno, le “pazzignane”, guidata da Luisa De Stefano, hanno battezzato la nascita di quel sodalizio camorristico con il sangue di tre vite estranee alle dinamiche camorristiche. I primi due omicidi furono dettati dal livore di vendetta, un sentimento acuito dalla consapevolezza che i loro congiunti sarebbero stati condannati al carcere a vita, alla vigilia della sentenza definitiva per la strage del Bar Sayonara, una scellerata azione camorristica in cui persero la vita quattro persone innocenti. Padri di famiglia, lavoratori onesti. Determinanti per ricostruzione dei fatti le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, capeggiati dal mandante: Ciro Sarno, ‘o sindaco.
La prima vita risucchiata in quel livoroso vortice di vendetta è quella di Mario Volpicelli, cognato dei fratelli Sarno, commesso in una merceria che mai si era invischiato nei loschi affari dei fratelli di sua moglie. Avrebbe compiuto 60 anni lo scorso 15 ottobre e invece è stato ucciso il 30 gennaio del 2016, mentre rincasava al termine dell’ennesima giornata di lavoro. Commesso in un negozio “tutto 50 centesimi” in via Bartolo Longo, stringeva ancora le buste della spesa tra le mani quando fu raggiunto dai sicari che lo giustiziarono come un boss, sparando due colpi alla testa, mentre percorreva la strada per raggiungere la sua abitazione nel rione De Gasperi.
Un delitto dal duplice significato: “un regalo” per l’ex boss Ciro Sarno alla vigilia del suo onomastico che ricorre il 31 gennaio, assassinando il cognato al quale era più legato e che stimava profondamente, soprattutto per la costante capacità di tenersi alla larga dalla malavita, seppure questo volesse dire spaccarsi la schiena, lavorare sodo per guadagnarsi da vivere e non essere certo di riuscire a mettere da parte i soldi per permettersi una serata in pizzeria con la famiglia. “Un regalo” anche per il boss Ciro Minichini, detto Cirillino, padre di Alfredo e Michele, due perni portanti dell’alleanza, ma anche di Martina e Antonio, i due figli nati dall’unione con Anna De Luca Bossa, sorella di Tonino ‘o sicco. Antonio Minichini fu ucciso il 29 gennaio 2013 – motivo per il quale la data dell’omicidio di Mario Volpicelli si colloca in un disegno criminale tutt’altro che casuale – all’età di 19 anni, mentre si trovava in compagnia dell’amico Gennaro Castaldi, legato ai D’Amico. In quel momento storico quest’ultimo clan era in guerra con i De Micco e proprio i killer Salvatore De Micco e Gennaro Volpicelli entrarono in azione per assassinare i due giovani. Gennaro Volpicelli era il nipote di Mario, un uomo estraneo alle logiche malavitose, ma ugualmente condannato a morte da quei vincoli di parentela.
A marzo dello stesso anno fu la volta di Giovanni Sarno, fratello degli ex numeri uno di Ponticelli, invalido e con problemi di alcolismo, ucciso mentre dormiva nel letto della sua abitazione, un basso nel Rione De Gasperi, poco distante dalla zona in cui vivono “le pazzignane”, nel giorno del compleanno di suo padre.
Giovanni Sarno, 54 anni, con precedenti risalenti agli anni Novanta, freddato con due colpi alla testa. Viveva in un “basso” con la porta sempre aperta, in condizioni di indigenza e con problemi di alcol, trascorreva la maggior parte delle sue giornate in quella abitazione, aiutato dai parenti che gli portavano da mangiare. Usciva raramente, di solito per recarsi in un bar vicino alla sua abitazione dove beveva e acquistava la birra che poi portava anche a casa. Non aveva timori, non si sentiva in pericolo, lasciava la porta del basso aperta per consentire ad amici e conoscenti di affacciarsi nell’abitazione per sincerarsi delle sue condizioni e chiedergli se avesse bisogno di qualcosa.
Il trasferimento dei parenti dei Sarno ancora residenti a Ponticelli ha messo fine a quella mattanza, ma a giugno di quello stesso anno la scia di sangue si allunga, i clan alleati mettono la firma sull’omicidio di un’altra vittima innocente: i killer Michele Minichini e Antonio Rivieccio, fanno irruzione nel circolo ricreativo di Umberto De Luca Bossa nel Lotto O per eliminare il boss dei barbudos Raffaele Cepparulo, ma uccidono anche Ciro Colonna, un 19enne del posto estraneo alle logiche camorristiche.
Il 26 marzo del 2018 Luisa De Stefano viene arrestata insieme agli altri affiliati al clan che a vario titolo hanno partecipato all’omicidio Colonna-Cepparulo e proprio nel primo, vero momento di maggiore difficoltà il clan adesca uno dei reduci dei parenti dei Sarno, inspiegabilmente rimasto a Ponticelli, non di certo per ucciderlo, ma per assoldarlo.
Tra i verbali che custodiscono le dichiarazioni rese dal giovane Schisa emerge il dettaglio inaspettato che lascia non poche perplessità circa la coerenza della politica adottata dalle “pazzignane” in quegli anni: “Dopo l’arresto di mia madre per l’omicidio Colonna-Cepparulo – ha dichiarato Tommaso Schisa – mi sono trovato in difficoltà e mi sono occupato personalmente di scendere a Ponticelli, da Marigliano, per risolvere la situazione. In seguito al mio intervento hanno iniziato a collaborare per la gestione della piazza Anna ‘a cafona, mamma di mio zio Damiano e il figlio Gianni Esposito, il cui padre è Peppe ‘o maccarone, collaboratore di giustizia.”
Giuseppe Esposito, detto ‘o maccarone, cugino dei fratelli Sarno è tra gli ex affiliati alla cosca che optarono per il pentimento e proprio in quel periodo storico finì nuovamente sotto i riflettori per le vibranti proteste, diffuse a mezzo stampa, in seguito all’estromissione dal programma di protezione.
“Mi hanno fatto uscire dal programma di protezione senza un motivo. Sono stato abbandonato dallo Stato dopo sette anni. – affermò ‘o maccarone, quando all’età di 53 anni finì agli arresti domiciliari dopo 20 anni di carcere – E ora non so più come andare avanti con una famiglia e con un bimbo piccolo di poco più di due anni che è nato durante il periodo in cui ero sotto protezione. Io non chiedo di vivere ma almeno di farmi sopravvivere per far crescere questo piccolo.
Posso uscire di casa per tre ore al mattino e tre ore la sera, ma dove vado? Non ho neanche i soldi della spesa. E non posso andare da nessuna parte a chiedere lavoro. Chi mi prende a questa età e con il mio curriculum criminale?
Non capisco questa decisione della Procura di Napoli. Eppure io mi sono sempre comportato bene durante il programma di protezione. Mi fa rabbia questa cosa perché due anni fa dopo la ‘nuova stagione’ di omicidi a Ponticelli nella nostra famiglia con le uccisioni di Mario Volpicelli e Giovanni Sarno si è deciso di portare via dal quartiere e proteggerli circa 60 persone legate da vincoli familiari e di affiliazione.
E io che sono uno dei fondatori del clan e che ho collaborato con lo stato dopo sette anni vengo scaricato senza motivo? Eppure Papa Francesco e il cardinale Sepe e tanti parroci napoletani non invitano sempre i camorristi a pentirsi, a convertirsi e a deporre le armi?. Ebbene io l’ho fatto. E a che è servito? E’ giusto che io sia stato abbandonato come un giocattolo che non piace più? Che devo fare? Mettermi un corda al collo?”.