Il blitz eseguito da polizia e carabinieri all’alba di martedì 3 ottobre nell’area orientale di Napoli ha concorso a indebolire il cartello costituito dai clan alleati di Napoli est: Minichini, Schisa, De Luca Bossa, Rinaldi. Un’operazione che rappresenta a tutti gli effetti il sequel dell’analogo provvedimento eseguito lo scorso novembre e che portò all’arresto di circa 60 persone, molte delle quali raggiunte da una nuova ordinanza di custodia cautelare pochi giorni dopo la celebrazione di una tappa cruciale del processo che li vede già rischiare di incassare una condanna che oscilla tra i 20 anni richiesti per le figure apicali dell’organizzazione e i 7 per gli affiliati che hanno ricoperto un ruolo marginale.
Un’operazione che conferma e consolida il quadro emerso già contestualmente al primo blitz e che ricostruisce l’assetto organizzativo del sodalizio camorristico: ciascuna organizzazione disponeva di una certa autonomia gestionale nel territorio di propria competenza, riconducibile all’attività estorsiva, compravendita delle case popolari, piazze di droga e gestione delle imprese di pulizie operanti nei condomini, ma gli introiti convergevano in una casa comune dalla quale venivano prelevate le quote per i capi famiglia, gli stipendi per gli affiliati e le somme destinate al mantenimento dei detenuti e alle spese legali. I guadagni mensili dell’organizzazione si aggiravano intorno ai 130mila euro. Confermato anche il ruolo apicale ricoperto dai capi. Ancora una volta, le dichiarazioni rese da ben dieci collaboratori di giustizia si sono rivelate cruciali per ricostruire ruoli e gerarchie all’interno del clan.
Ugualmente determinanti le intercettazioni, soprattutto per ricostruire il controllo e la gestione dell’attività di spaccio di stupefacenti. I proventi dello spaccio, come detto, confluivano nella cassa comune. Tuttavia, ciascun cartello poteva gestire autonomamente altre piazze di droga con l’autorizzazioni dei vertici dell’organizzazione, versando una tangente variabile in base alla tipologia di stupefacente trattato.
Un’indagine che ha preso il via in seguito al sequestro di alcuni manoscritti sui quali erano annotati nomi e cifre. Un registro contabile a tutti gli effetti, quello rinvenuto in casa di Luisa De Stefano nel 2016, pochi giorni prima di Natale. Un ritrovamento che confermò non solo la presenza di un’intensa e radicata attività di spaccio tra le rovine del rione De Gasperi sotto il controllo delle “pazzignane”, ma che suggeriva il ruolo cruciale assunto dall’abitazione della De Stefano nell’ambito della gestione degli affari dell’organizzazione e che suggeriva che la donna vestisse gli abiti della ‘boss’. Un’intuizione supportata da decine e decine di dialoghi intercettati e che hanno consentito agli inquirenti di attribuire a ciascun soggetto il ruolo ricoperto all’interno del clan.
Ricostruita anche l’attività e la gestione delle piazze di droga riconducibili ai singoli vertici del clan e radicate in diverse zone del quartiere, controllate dalle figure apicali del cartello costituito dai vecchi clan dell’ala orientale di Napoli: “le pazzignane” Luisa e Antonella De Stefano, quest’ultima coadiuvata dal marito Michele Damiano, ma anche Vincenza Maione e Gabriella Onesto, oltre a quelle riconducibili ai vertici del clan De Luca Bossa e Casella.
Una sfilza di prove granitiche che ricostruiscono e documentano meticolosamente il business principale del cartello camorristico che dal 2018 al 2020 ha conquistato il controllo del territorio, contestualmente al blitz che a novembre del 2017 portò all’arresto delle figure di spicco del clan De Micco, infliggendo alla cosca un colpo durissimo che involontariamente favorì l’ascesa dei rivali.
Un’attività di spaccio estesa finanche tra le mura degli istituti penitenziari nei quali erano detenuti diversi affiliati al clan, ognuno dei quali ha adottato una strategia peculiare per consentire ai parenti di introdurre lo stupefacente in carcere eludendo i controlli. Droga cucita nei jeans nel caso di Umberto De Luca Bossa, mentre Roberto Boccardi chiese a sua madre di nasconderla tra le fette di salame sottovuoto. E infine, Michele Minichini ha optato per l’escamotage più fantasioso, chiedendo alla sua ex compagna Gabriella Onesto e alla sorella Martina di nascondere gli involucri in bocca per poi passarglieli attraverso un bacio, in modo che potesse ingoiarli e poi recuperarli, quando avrebbe evacuato la sostanza. Un metodo che aveva fatto suo guardando dei documentari sui narcos sudamericani che si servivano di ‘corrieri ingoiatori’ per trasportare la droga. Per evacuare la sostanza bastava bere una combinazione composta da latte caldo e succo di frutta freddo.
Non solo spaccio di stupefacenti. Ancora una volta emergono dettagli che concorrono a far luce sul business degli alloggi popolari. La compravendita delle case di edilizia popolare che pullulano nei rioni di Ponticelli si conferma una delle attività sulle quali la camorra locale punta fortemente per rifocillare le casse del clan.