«Il massacro di Ponticelli rischia di essere una storia di sole vittime, le due bambine e i tre ragazzi. Se c’è anche un solo dubbio che Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo abbiano pagato da innocenti, le autorità giudiziarie devono indagare per arrivare alla verità, anche e soprattutto se è una verità scomoda. Io mi unisco a questa richiesta: il caso sia riaperto», ha affermato la deputata Stefania Ascari, coordinatrice del Comitato XXI della Commissione parlamentare Antimafia, in riferimento al il brutale omicidio di due bambine, Barbara Sellini, di 7 anni, e Nunzia Munizzi, 10 anni, violentate, seviziate, uccise e date alle fiamme, il 3 luglio del 1983, nel rione Incis di Ponticelli.
Seppure per il duplice omicidio delle due bambine siano stati condannati all’ergastolo in via definitiva Giuseppe La Rocca, Luigi Schiavo e Ciro Imperante, tre ventenni incensurati del posto, sulla base delle sole dichiarazioni rese da un testimone, a fronte di numerose prove che ne dimostrano l’innocenza.
La Commissione antimafia ha accertato che all’epoca vi furono gravi carenze investigative, possibili depistaggi della camorra. In particolare, si punta il dito contro chi svolse le prime indagini con metodi non sempre ortodossi. La Commissione Antimafia ha esplicitamente chiesto di riaprire il processo lasciando intendere che il vero assassino non sia stato ancora individuato.
Un’ipotesi che trova conferma in un libro, pubblicato nel 2010: “Viaggio nel silenzio imperfetto”, edito da Pironti, un testo di memorie carcerarie scritto da Giacomo Cavalcanti, detenuto per 14 anni accusato di essere stato un boss del clan di Bagnoli, periferia occidentale di Napoli. Cavalcanti, che si è sempre dichiarato innocente, si è rifatto una vita al Nord ottenendo la piena riabilitazione, dopo un calvario simile a quello vissuto dai tre ragazzi accusati di essere “i mostri di Ponticelli”.
Cavalcanti nel suo libro racconta di aver appreso dai dialoghi con altri detenuti in carcere che il vero autore del massacro di Ponticelli era stato individuato dagli emissari della camorra in un giovane vicino di casa delle bambine, che soffriva di disturbi mentali e che poco tempo dopo si suicidò.
Il profilo descritto da Cavalcanti combacia con la figura di Luigi Anzovino, il 19enne che abitava nel palazzo di fronte a quello delle due bambine e che quattro mesi prima era stato accusato di “atti di libidine violenta” nei confronti di un ragazzino di 13 anni.
Il fratello minore di Anzovino fu tra i primi e più importanti testimoni d’accusa contro i tre operai ventenni, in particolare indicò Giuseppe La Rocca come il ragazzo con il quale le due bambine avevano un appuntamento la sera in cui sono sparite. Un ragazzo che Barbara e Nunzia chiamavano “Gino tutte lentiggini” e che secondo gli abitanti del rione Incis, invece, sarebbe proprio Luigi Anzovino. Lo stesso giorno dell’arresto dei tre operai, nel settembre del 1983, Luigi Anzovino aggredisce la sorella appena diciottenne, tenta di violentarla e l’accoltella con undici fendenti, servendosi di un coltello a serramanico. La stessa arma utilizzata dall’assassino delle due bambine.
Anzovino viene arrestato e finisce nella stessa cella in cui erano detenuti i tre ragazzi accusati di essere gli assassini delle piccole Barbara e Nunzia i quali, di recente, hanno raccontato che in più occasioni lo hanno sorpreso a sbirciare tra i documenti che stavano accorpando per provare la loro innocenza. Dopo circa due anni, Anzovino esce per decorrenza dei termini e viene mandato in soggiorno obbligato a Polla, comune in provincia di Salerno. A gennaio del 1986 scappa per tornare a casa dei genitori, nel rione Incis di Ponticelli. Quando i carabinieri bussano alla porta per ricondurlo in carcere, si getta dalla finestra e muore.
La testimonianza resa da Cavalcanti nel suo libro conferma l’esito delle indagini condotte dagli emissari della Nuova Camorra Organizzata, successivamente all’efferato delitto delle due bambine di Ponticelli.