In riferimento al “Massacro di Ponticelli”, il brutale omicidio di Barbara Sellini e Nunzia Munizzi, due bambine di 7 e 10 anni, violentate, seviziate, pugnalate e date alle fiamme, nel Rione Incis di Ponticelli, il 3 luglio del 1983, uno dei nodi più complessi da sciogliere è quello relativo al ruolo ricoperto dalla camorra.
Gli emissari del boss Raffaele Cutolo radicati a Ponticelli, infatti, avviarono delle indagini parallele a quelle delle forze dell’ordine per stanare il colpevole e ucciderlo, proprio come previsto dal codice d’onore imposto dal capo della Nuova Camorra Organizzata. Un’indagine che avrebbe condotto la camorra sulle tracce di un giovane che abitava poco distante dalle bambine, Luigi Anzovino, affetto da problemi psichici, la cui descrizione fisica collima perfettamente con l’identikit del “mostro”, al pari del profilo psicologico. Il giovane, infatti, prima dell’omicidio delle due bambine era stato accusato di “atti di libidine violenta” per aver abusato di un 13enne. Infine, poche settimane dopo l’omicidio di Barbara e Nunzia, cercò di violentare sua sorella, accoltellandola ripetutamente con un coltello a serramanico molto simile a quello utilizzato per compiere il delitto sessuale a sfondo sadico delle piccola Barbara e Nunzia.
Di tutt’altro avviso le forze dell’ordine che sulla base delle dichiarazioni di un supertestimone, arrestano tre ventenni del posto: Giuseppe La Rocca, Ciro Imperante e Luigi Schiavo. Determinante, nella ricostruzione dello scenario che ha portato i tre ad essere condannati all’ergastolo, il ruolo ricoperto da un ex affiliato ala NCO di Cutolo: il collaboratore di giustizia Mario Incarnato che viveva nella Caserma Pastrengo, il luogo in cui all’indomani dell’omicidio, venivano condotti frequentatori abituali del rione e probabili testimoni per essere sottoposti a interrogatori che sfociavano in pestaggi e torture. In questo clima, Incarnato avrebbe indottrinato il supertestimone Carmine Mastrillo, un giovane disabile, senza una gamba, amico dei tre ragazzi contro i quali ha puntato il dito. Motivo per il quale, una delle tesi che ha preso forma nel corso dei 40 anni trascorsi dal “massacro di Ponticelli” introduce il sospetto che Mario Incarnato abbia depistato le indagini per coprire il vero colpevole: un camorrista pedofilo.
Una tesi sbugiardata da un episodio eclatante: il pestaggio di un elemento di spicco della camorra di Ponticelli, avvenuto in carcere svariati anni dopo l’omicidio di Barbara e Nunzia. Una punizione inflitta ad una figura di primo ordine della malavita ponticellese dagli altri detenuti addentrati nelle dinamiche camorristiche dell’area orientale di Napoli, perchè il boss aveva corteggiato con insistenza un giovane pugliese che aveva esposto la questione ai referenti della Sacra Corona Unita che stavano scontando una pena nello stesso istituto penitenziario, manifestando vivo disappunto e disprezzo per quanto gli era accaduto. Un atteggiamento che andava pesantemente condannato, secondo i camorristi della zona est di Napoli, soprattutto perchè rischiava di intaccare la rispettabilità e la reputazione dei clan operanti in quella stessa fetta di territorio gestita anche da quel boss. Non a caso, al pestaggio parteciparono tutte le figure di spicco operanti tra Barra e Ponticelli, i quali infierirono impietosamente contro il boss, sprezzanti del suo status, lasciandolo tramortito al suolo.
Una vera e propria spedizione punitiva avvenuta all’incirca vent’anni dopo il “Massacro di Ponticelli”, a riprova di quanto fosse ancora saldamente radicato nel modello camorristico vigente in quegli anni il codice ideologico e comportamentale introdotto da Cutolo.
Particolare tutt’altro che trascurabile: il pestaggio avvenne nel carcere di Spoleto, lo stesso istituto penitenziario nel quale anche i tre ragazzi accusati di essere gli assassini di Barbara e Nunzia stavano scontando la loro pena. Un fatto che sottolinea la ferma certezza dell’innocenza dei tre da parte degli esponenti della camorra che di contro si sono dimostrati tutt’altro che indulgenti con il boss di Ponticelli, reo di aver cercato di sedurre un giovane detenuto.
Perché Mario Incarnato può aver concorso a far condannare tre giovani innocenti?
Per puro opportunismo. Un dettaglio che emerge nitidamente dalle dichiarazioni rese dagli ex camorristi passati dalla parte dello Stato in seguito all’introduzione di un programma di protezione e di un sussidio riservati ai collaboratori di giustizia e ai loro familiari.
Mario Incarnato fu uno dei primi pentiti della storia camorristica napoletana, viveva nella caserma Pastrengo di Napoli in una situazione di oggettiva promiscuità con i militari dai quali dipendeva in tutto e per tutto. Erano loro che provvedevano al suo mantenimento. Cibo, viveri di prima necessità. Motivo per il quale, fornendo un contributo decisivo che consentisse ai carabinieri di chiudere in tempi record il cerchio intorno alle indagini sul duplice delitto che sconvolse l’Italia, avrebbe blindato la sua posizione, garantendosi favori e privilegi che non avrebbero potuto negargli.
In quegli anni, infatti, i pentiti non si facevano scrupoli ad imputare omicidi e altri reati gravi a persone estranee ai fatti, in cambio in cambio di un pacchetto di sigarette e dieci mila lire.
Del resto, lo stesso Incarnato, si è guardato bene dal rivelare di essere il mandante di un omicidio che era stato compiuto da due killer, su suo ordine, poco prima di intraprendere la strada del pentimento.