Un retroscena legato a una vicenda che risale a più di vent’anni fa, ma che concorre a chiarire ulteriormente il modus operandi dei clan camorristici napoletani negli anni in cui avvenne il cosiddetto “massacro di Ponticelli”: Barbara Sellini e Nunzia Munizzi, due bambine di 7 e 10 anni, furono rapite, seviziate, violentate e uccise, nel quartiere napoletano della periferia orientale di Napoli. Contestualmente alle indagini delle forze dell’ordine, anche la camorra avviò delle ricerche serrate per stanare il colpevole e condannarlo a morte, così come previsto dal codice d’onore imposto dal boss Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata che all’epoca del delitto – avvenuto il 2 luglio del 1983 – disponeva di diversi emissari a Ponticelli, il quartiere teatro del brutale assassinio.
Per l’omicidio di Barbara e Nunzia furono condannati all’ergastolo in via definitiva tre giovani che per tutto il periodo trascorso in carcere hanno beneficiato della protezione della camorra che ebbe modo di appurare la loro estraneità ai fatti proprio attraverso le indagini condotte nel quartiere. I cutoliani giunsero a concludere che l’autore del delitto fosse un giovane abitante del rione Incis, la zona in cui vivevano anche le due bambine, affetto da gravi disturbi psichici che si suicidò per sottrarsi all’arresto.
Quella che regnava tra le strade di Napoli e provincia in quegli anni era una camorra profondamente diversa rispetto a quella contemporanea, molto attenta alla forma, oltre che alla sostanza. L’onore, la rispettabilità e la reputazione del clan e dei suoi affiliati rappresentavano una priorità da preservare a qualunque costo. Questo non solo prevedeva che chiunque – affiliati compresi – si rendesse autore di infanticidi o di atti di pedofilia nella zona controllata dall’organizzazione capeggiata da Cutolo fosse condannato a morte, ma anche che i camorristi s’impegnassero a non adottare condotte moralmente deprecabili. Erano gli anni in cui i camorristi avvezzi a fare uso di droghe venivano gambizzati dagli affiliati alla loro stessa cosca d’appartenenza per punirne la mancanza di rispetto platealmente indirizzata al clan e agli altri sodali, riconducibili alla medesima organizzazione criminale.
In quest’ottica, durante i primi anni del 2000, circa vent’anni dopo il delitto delle due bambine, nel carcere di Spoleto, diversi esponenti della camorra napoletana e della Sacra Corona Unita pugliese, si resero autori di un violentissimo pestaggio ai danni di una figura di spicco della camorra di Ponticelli, reo di aver molestato un ragazzo molto giovane, indirizzandogli in più occasioni delle avances tanto esplicite quanto imbarazzanti.
Il giovane, di origini pugliesi, si rivolse agli esponenti della Sacra Corona Unita detenuti nel suo stesso carcere e gli espose la questione, dichiarandosi infastidito dalle attenzioni particolari, dirette e volgari, ricevute da una figura autorevole della malavita ponticellese. La notizia venne quindi riportata ai camorristi dell’area orientale di Napoli che decisero di attivarsi personalmente per rimediare al torto che – loro malgrado – era stato indirizzato ai pugliesi mediante una condotta morale ritenuta indegna per un camorrista e che di riflesso rischiava di mettere in cattiva luce gli altri sodali della zona detenuti in quello stesso carcere. Non si trattò di un episodio isolato: lo stesso camorrista si trovò invischiato in una vicenda simile già in passato, mentre era detenuto presso il carcere di Isernia e anche in quella circostanza, la notizia si diffuse rapidamente, dentro e fuori dal carcere. Un aggravante che portò i camorristi dell’ala orientale di Napoli detenuti a Spoleto ad optare per una drastica soluzione.
Diversi esponenti della malavita napoletana, capeggiati da alcune figure di spicco riconducibili ai clan di Barra, portarono a compimento una vera e propria spedizione punitiva per sanzionare quella condotta disonorevole e dissuadere quel camorrista di Ponticelli dal seguitare ad adottare ancora in futuro un atteggiamento ritenuto infamante non solo per gli altri affiliati al suo stesso clan, ma anche per gli altri soggetti addentrati nel circuito criminale. L’uomo finito nel mirino dei picchiatori fortemente motivati a punire quella malefatta, fu conciato piuttosto male. Il pestaggio fu talmente violento da ridurlo quasi in fin di vita.
Un episodio che conferma che la camorra, in quegli anni, non faceva sconti nemmeno ai camorristi che violavano il codice d’onore.
Quando si verificò questo episodio anche Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo, i tre ragazzi condannati per il “massacro di Ponticelli”, erano detenuti a Spoleto: lo stesso carcere in cui la camorra mise la firma su un brutale pestaggio indirizzato a una figura di spicco della criminalità ponticellese, perchè aveva cercato di sedurre un giovane ragazzo. Un aneddoto che conferma la forte e ferma convinzione dell’innocenza dei tre ragazzi da parte della camorra che diversamente gli avrebbe riservato un trattamento simile o addirittura più severo.