Spesso parlare di un fenomeno solo tramite delle cifre è piuttosto riduttivo ed alienante, si perde il contatto con le persone, con la realtà, e sembra quasi che si stia affrontando un problema di matematica.
Nonostante ciò i numeri sono fondamentali per far sì che i problemi possano emergere e, dunque, esser poi risolti.
O almeno ci si dovrebbe provare.
Nel nostro Paese, invece, l’usanza sembra essere diversa. Coloro che prendono le decisioni nascondono la propria incompetenza sotto al tappeto e si affidano al benaltrismo: o esistono problematiche più importanti e di estrema urgenza delle quali non si conosce il nome, oppure la vittima del fenomeno viene accusata di esserne al tempo spesso il colpevole. Altre volte, quando la problematica in questione pare sfociare nel sociale, ci si aggrappa al bigotto animo da finto crocerossino e si invita l’opinione contraria alla massa dominante a “pensare ai nostri bambini/ragazzi”.
Allora facciamolo, pensiamo al luogo dove i nostri ragazzi si formano in tutto e per tutto, a livello sociale e lavorativo: la scuola.L’Unione Europea aveva fissato come obiettivo il raggiungimento del 10% per quanto riguarda il tasso di abbandono scolastico nel decennio 2011-2020 per tutti i Paesi della Comunità. Il dato in Italia è migliorato di qualche punto, ma per ora la percentuale si attesta comunque tra le più alte e preoccupanti d’Europa: appena sotto il podio occupato da Malta (16,7%), Spagna (16%) e Romania (15,6%), il Belpaese figura con il suo 13,6%. Attenzione però, il numero è fine a sé stesso quando non contestualizzato.
Dalle indagini interne, si delinea anche in questo campo l’eterno divario che spacca il nostro Paese in due dai tempi dell’Unità, quello tra Nord e Sud. Difatti i primi posti nella “classifica” del report locale sono occupati solo da regioni del Mezzogiorno: capeggia la Sicilia (dove quasi un ragazzo su cinque abbandona gli studi anzitempo!), la nostra Campania (17,3%), la Calabria (16,6) e la Puglia (15,6%). La situazione è ancor più drammatica nei capoluoghi di queste regioni, la nostra Napoli presenta la percentuale più alta d’Italia, con un a dir poco tragico 28,1%. Come dicevo prima, i numeri non sono altro che uno strumento, fanno sì che il problema risalti ai nostri occhi, ma per risolverlo c’è bisogno di capire da dove provenga. Un tasso di abbandono così elevato indica, oltre che una disparità economica di cui si è già tristemente a conoscenza, una mancanza di fiducia nell’istituzione da parte dei ragazzi e delle loro famiglie.
Da qui bisogna chiedersi: com’è successo?
In che cosa l’istituzione scolastica e il percorso educativo dello Stato italiano falliscono ogni giorno?
Il Governo, in tutte le sue ultime legislature e a prescindere dal colore politico, ha indossato il cappuccio da boia e ha soppresso lo sviluppo del nostro sistema scolastico e, di conseguenza, di noi giovani, quindi del futuro del Paese. Sfido chiunque, infatti, a trovare nella caciara delle ultime campagne elettorali qualcuno che abbia stilato un piano concreto di rinnovamento per la scuola o che abbia quantomeno riconosciuto la situazione disastrata che vi imperversa.Il disastro di cui parlo è in primis strutturale: secondo un report di Cittadinanza Attiva ben il 58% degli istituti scolastici non è in possesso del certificato di agibilità e gli studenti si trovano, dunque, a svolgere le lezioni in aule allagate, sotto una nevicata di intonaco e senza la possibilità di svolgere altre attività didattiche a causa dell’inagibilità di spazi quali palestre e laboratori, fondamentali per portare a compimento un percorso formativo completo.
A proposito di percorso formativo, l’impianto didattico fornito dal Ministero risulta estremamente limitato, vecchio e lontano dall’attuale realtà che i giovani toccano con mano quotidianamente. Già in passato si era tentato di svecchiare il mero sistema nozionistico dei programmi didattici, sostituendoli con le più flessibili “indicazioni nazionali” in seguito alla riforma Gelmini del 2010.
Tuttavia, i giovani continuano ad accusare il sistema scolastico di non averli formati a livello concreto per affrontare la vita di tutti i giorni, ma perché è questo il pensiero comune?
Credo che un esempio pratico possa far comprendere la nascita di questo sentimento. L’educazione civica è, di base, lo studio della gestione e del modo di operare dello Stato, mettendo in rilievo il ruolo dei cittadini in questo processo. Lo studio della materia, dunque, ha come finalità la formazione di cittadini a tutto tondo, capaci di comprendere dove iniziano e finiscono i loro diritti, doveri e libertà.Dal 1 settembre 2020, l’educazione civica diventa una disciplina trasversale che prende il nome di UDA (unità di apprendimento).
Si procede tramite l’individuazione di un argomento, scelto dal Consiglio di Classe, da collegare con i programmi o semplicemente argomenti affini, a tutte le altre materie. Per quanto ciò che si tratta possa essere interessante e attuale, in questo modo si perde l’obiettivo che l’insegnamento della materia dovrebbe avere. A tale carenza, va unita la complessità di alcuni “programmi” come quelli della letteratura italiana e della storia che, nonostante l’impegno dei docenti, sono estremamente difficili da portare a termine, lasciando gli studenti all’oscuro dello sviluppo socio-politico del Paese nei decenni immediatamente precedenti e non fornendo loro, dunque, gli strumenti per comprendere l’attualità e formare un minimo della propria posizione ideologica.
Non va sottovalutato, infatti, l’impatto che il declino dell’istituzione scolastica ha portato sul dibattito pubblico e sull’attuale situazione politica, che ricordo essere specchio della società. L’elettorato vive una situazione di scoramento figlia della morte delle ideologie, alle quali non si viene più educati. Inserendo la scuola in questo quadro, dunque, è facile comprendere quanto l’educazione e l’istruzione siano madri di una società, di un Paese. Esserne orfani ci trasforma da padroni del nostro destino, che hanno tra le mani il potere di scegliere qualcuno che faccia le nostre veci, a facili prede di una quinquennale caccia grossa che ci adesca con facili risoluzioni a problemi estremamente complessi.
E’ di vitale necessità iniziare a riformare il sistema scolastico da subito, uniformandolo agli standard europei, anche nella durata del percorso, per far sì che i nostri giovani siano altrettanto competitivi; investendo nelle strutture e nei mezzi volti al completamento delle competenze; rinnovando le indicazioni nazionali per ridare alla cultura la sua vera valenza, cioè un mezzo di comprensione del mondo e non un pellicciotto da sfoggiare altezzosamente agli aperitivi del weekend; valorizzando altre forme di talento, sportive o artistiche che siano, per rendere la scuola veramente per tutti.
Una madre dona la vita, un futuro a un individuo; la scuola dona la vita, un futuro alla società intera e sembra che qualcuno voglia privarcene. Un Paese senza futuro è un malato terminale, per questo bisogna fare tutto ciò che sia possibile per trovare una cura.
SIMONE IOZZI