Francesco Pio Valda ha fatto scena muta davanti al gip durante l’udienza per la convalida del fermo nel carcere di Secondigliano dove è detenuto dallo scorso 21 marzo. Il 20enne è accusato di omicidio con l’aggravante del metodo mafioso.
Appartenente a una famiglia camorristica di Barra e ritenuto contiguo al clan Aprea, in seguito a una rissa per futili motivi, ha esploso diversi colpi d’arma da fuoco, la notte tra il 19 e il 20 marzo, nella zona degli chalet di Mergellina, colpendo a morte Francesco Pio Maimone, 18enne di Pianura estraneo alla lite e alle dinamiche camorristiche.
Un episodio che giunge al culmine di un percorso concitato, iniziato tre anni fa, quando non ancora maggiorenne fu arrestato per spaccio di droga insieme al fratello. In misura cautelare fu affidato ad una comunità in provincia di Napoli, ma scappò dopo appena un mese, in seguito all’aggravamento della misura cautelare per comportamenti non idonei. Era stato trovato in possesso di un telefono cellulare. Fu quindi trasferito a Nisida e successivamente in un’altra comunità del casertano, dove ha trascorso un anno e ha portato a termine il percorso.
E’ lucidamente rammaricata Silvia Ricciardi, la direttrice dell’Associazione Jonathan Onlus che ha ospitato Valda per poco più di un mese: “la sua storia non è molto diversa da quella di tanti ragazzi che la comunità ha ospitato. Faccio questo lavoro da 30 anni e di “Francesco” ne abbiamo visti tanti. Questo è il dato più triste. Questi ragazzi provengono da quartieri dormitorio e da famiglie disgregate, sono accomunati da un’importante povertà culturale. Quando arrivano qui, il quadro è già abbastanza compromesso, ma in tanti sono riusciti a cambiare vita, complice un’importante forza di volontà e la capacità di trovare dentro di sé le risposte giuste.”
Malgrado il lavoro degli operatori e la lunga permanenza in un contesto avulso da quelle dinamiche, tuttavia, al termine del percorso, quei ragazzi ritornano nel contesto d’origine ed è questo uno dei grandi controsensi che il più delle volte compromette il buon esito della riabilitazione sociale. Lo spiega bene la dottoressa Ricciardi: “quando escono da qui, tornano nella stessa casa, nella stessa famiglia e nella stessa realtà da dove sono stati allontanati e questo non aiuta, al pari dell’assenza di risposte concrete: lavoro o corsi di formazione, in primis. Per quanto possano lavorare su sé stessi, ad accoglierli trovano quella stessa famiglia.”
La mancanza di un obiettivo sano da perseguire, complice la disoccupazione e la mancanza di alternative concrete, rappresentano una delle criticità decisive nel determinare “la ricaduta”, ovvero, il ritorno alla vita di strada, alla criminalità, alla violenza, ai reati. Non a caso la dottoressa Ricciardi sottolinea che i ragazzi che sono riusciti a ritagliarsi un posto sano all’interno della società sono quelli che grazie all’aiuto della comunità sono riusciti ad inserirsi nel mondo del lavoro.
Arginare il problema è possibile, non solo guardando al futuro di questi ragazzi, aiutandoli a trovare un lavoro, ma anche valutando le soluzioni da attuare per garantirgli una cultura e un’educazione genuine.
“Lavorare per cambiare i ragazzi che arrivano in comunità è difficile, ma non impossibile. Seppure a 17 anni è già tardi – conclude la dottoressa Ricciardi – un ragazzo, a quell’età è già formato, dispone di una propria personalità ed educato ai valori della camorra. Questi ragazzi manifestano grosse difficoltà a leggere e scrivere, un handicap che gli nega a priori la possibilità di trovare un buon lavoro. Per questo andrebbero intercettati prima. Quando vengono arrestati, nella maggior parte dei casi, è già tardi.”